Vasconcelos nella Tribuna degli Uffizi, ovvero l’uso social dell’arte contemporanea
La mostra dell’artista portoghese allestita in uno degli ambienti più importanti del museo fiorentino divide il pubblico: chi grida allo scandalo e chi esprime ammirazione incondizionata

La mostra di Joana Vasconcelos «Between Sky and Heart» (fino al 14 gennaio 2024) alle Gallerie degli Uffizi con tre grandi installazioni si inserisce nel ciclo dedicato a artiste donne, iniziato dalla direzione Schmidt nel 2016 (che ha accolto anche Kiki Smith), e più in generale nell’attenzione che il museo rivolge ad artisti contemporanei, da Antony Gormley a Sammy Baloji (quest’ultimo con un progetto esposto all’Andito degli Angioini legato agli archivi delle collezioni medicee).
L’artista portoghese (sebbene nata in Francia dove i genitori erano esiliati durante la dittatura), presentando in un ottimo italiano la sua mostra curata da Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, e Demetrio Paparoni, ha espresso l’entusiasmo per l’opportunità offerta a dieci anni dalla mostra alla Reggia di Versailles, ribadendo la sua volontà di non invadere gli spazi ma di creare con le sue installazioni monumentali e coloratissime, in cui si riflette tutta la ricchezza della cultura portoghese e il suo legame tra arti e mestieri, un ponte con la storia, ma anche con l’architettura, la moda e il design, dimensioni molto presenti sia nella realtà fiorentina odierna, sia nella tradizione del museo (ricordiamo le celebri sfilate di moda che si tennero negli anni Cinquanta nella Sala Bianca di Palazzo Pitti). Proprio in riferimento agli spazi, Demetrio Paparoni ha insistito su quanto le opere di Vasconcelos si adattino all’ambiente che occupano, assumendo, come i feltri di Morris (pur diversissimi), posture diverse, per concludere con la frase un po’ enigmatica, ma certo d’effetto e rassicurante per il pubblico, sul modo in cui l’artista, pur «pienamente postmoderna», abbia «anche logiche avanguardiste».
Il riferimento allo spazio è infatti quello che può essere maggiormente chiamato in causa, visto che, per la gioia di chi vuole instagrammare, la «Royal Valkyrie» appesa al soffitto della Tribuna, ne colma lo spazio, sollevando reazioni opposte: lo scandalo di alcuni per l’invasione di un luogo concepito come installazione a sé, trattandosi di un insieme decorativo davvero unico per bellezza e significato, e l’ammirazione incondizionata di altri, coloro che magari alla Tribuna, pur costellata di madreperle nel soffitto e di importanti dipinti alle pareti, avevano finora gettato un occhio distratto e che invece ora si incantano grazie all’attrattiva che il dialogo tra la decorazione di Vasconcelos e quella della sala offre.
È possibile stare nel mezzo tra queste due posizioni? Senza negare la forza dell’arte di Vasconcelos, molto impegnata in maniera intelligente sui temi di genere, e con opere di indubbio impatto visivo, ci si può interrogare sull’usura cui è sottoposto il termine «dialogo», che da anni pervade la museografia internazionale, applicando troppo spesso impropriamente un principio di «pathosformel» di warburghiana memoria che abbraccia e santifica qualsiasi accostamento; e saremmo in tema visto che ora agli Uffizi c’è la mostra dedicata a Warburg («Camere con vista»), se non fosse che il grande iconologo poneva fotografie in dialogo, non oggetti. Non si vuole certo qui condannare il dialogo in sé, assai fecondo di riflessioni e ben proponibile nell’ambito di certi progetti espositivi in spazi storici destinati fin dal ’900 a quella funzione, come Forte Belvedere e Palazzo Strozzi, sedi di importanti esposizioni di artisti contemporanei, oppure nel territorio (penso per la Toscana alle iniziative di «Arte all’arte», promosse dall’Associazione Arte Continua, che hanno lasciato opere stabili, fin dall’inizio degli anni Novanta, ma non solo).
Tuttavia, agli Uffizi, nella Tribuna, era veramente indispensabile un intervento così monumentale? Mettendo da parte le questioni di sicurezza che affliggono i detrattori (Eike Schmidt ci ha assicurato che studi ingegneristici hanno previsto qualsiasi rischio perfino in caso di sisma), resta da ragionare sul significato oggi di simili operazioni in musei importanti e sovraffollati, sul senso della spettacolarizzazione che svuota, peraltro, il significato politico delle opere e le assorbe nella categoria dell’intrattenimento. Ciò avviene in un’istituzione che non ha certo bisogno di essere spettacolarizzata, essendo, fin dall’architettura, un’opera d’arte concepita da Giorgio Vasari e che invece, nella logica attuale promossa da Franceschini e ora accolta da Sangiuliano, deve attirare sempre più visitatori, richiamati con TikTok e con altre forme di comunicazione, attività in cui gli Uffizi eccellono.
Esprimere questo dubbio rende però subito polverosissimi e/o elitari, perché sono proprio simili iniziative a entusiasmare una certa fascia di pubblico e a far sentire più «smart» chi teme di essere considerato ormai «vieux jeu» e si affanna nei salotti a esprimere ammirazione per la trasgressione che fa il suo ingresso nella tradizione. Ma si tratta davvero di trasgressione appendere, nella Tribuna, il complesso patchwork multicolore per restituire femminilità e sensualità alla mitica guerriera, le scarpe gigantesche coi tacchi composte di pentole («Marilyn») nella sala Bianca o la «Happy Family», una sacra famiglia pagana in cemento e maglia a ricamo, in quella di Bona? O sono appunto progetti espositivi concepiti per «épater les bourgeois» senza che nulla di contemporaneo sia pensato come opera duratura, capace di dare significato a un luogo di una città nella quale restano sempre parlanti le opere realizzate cinquecento anni fa? È il grave problema dell’uso effimero e social dell’arte contemporanea, a Firenze ma non solo.