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Una primadonna tra gli squali

Charlotte Burns

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Paula Cooper, gallerista «all’antica», spiega come sia possibile mantenere autonomia e autorevolezza in un circuito dominato da colleghi multinazionali e collezionisti conformisti

Paula Cooper, aranciata in mano e sorriso cordiale, non è come me l’immaginavo. Un caffè espresso e un atteggiamento più freddo sarebbero stati più consoni alle aspettative che avevo su uno dei più potenti mercanti d’arte al mondo, soprattutto di uno dai gusti così austeri. Dopo tutto la Cooper, settantasettenne, è sopravvissuta e ha prosperato per cinquant’anni nel volubile mercato dell’arte. La sua è stata la prima galleria ad aprire a Soho, con una mostra di opere di artisti come Carl Andre, Dan Flavin e Donald Judd, per sovvenzionare lo Student Mobilization Committee to End the War in Vietnam nel 1968, quando il presidente degli Stati Uniti era Lyndon Johnson. Da allora si sono succeduti altri otto presidenti e il mondo è cambiato radicalmente, così come il mercato dell’arte, che da impresa «familiare» si è trasformato in un business multimilionario, mentre i musei da polverosi templi per le élite sono diventati affollati centri turistici. In tutto questo movimento, Paula Cooper ha mantenuto la sua posizione come uno dei galleristi internazionali più rispettati. Ha sostenuto molti artisti minimalisti e concettuali ora leggendari e la sua influenza è riconosciuta in patria e all’estero: lo scorso novembre il Governo francese l’ha insignita dell’Ordre des Arts et des Lettres.

Il riferimento francese è pertinente, dal momento che proprio a Parigi, quando era una teenager, si è formato il suo interesse per il mondo dell’arte. «Avevo 17 anni, vivevo a Parigi ed ero molto sola, dice la Cooper. Sono cresciuta amando l’arte perché mia madre era una pittrice dilettante, anche se non le piacerebbe questa definizione. A Parigi vivevo nelle gallerie e nei musei. Tutta la mia vita era l’arte. È stato allora che ho deciso di volere lavorare con artisti viventi». Sapeva di voler essere una gallerista. «Non volevo lavorare in un museo perché non si può toccare l’arte, spiega. Ci divertivamo tanto in galleria. Eravamo liberi di prendere fisicamente in mano le opere e di cambiare allestimento ogni volta che volevamo. Così vivi con le opere e capisci davvero le tue emozioni per l’arte». La Cooper si è ispirata a Leo Castelli e Sidney Janis, «dei veri mercanti», apprezzati per il loro occhio. Non dice se è stato più difficile avere successo in quanto donna, ma ricorda sarcasticamente di aver «ricevuto pacche sulle spalle come se fossi divertente» dai colleghi maschi e che le donne, come mercanti, «non sono mai state considerate importanti. Edith Halpert (una delle prime donne a intraprendere a New York, negli anni Venti del ’900, l’attività galleristica, Ndr) è stata davvero importante per gli artisti, ma non ha mai commentato questo fatto». La Cooper ha sempre avuto fegato. Ha rifiutato di imparare a battere a macchina come ogni donna che si rispettasse nel caso decidesse di «essere la segretaria di qualcuno». Invece, si è fatta una reputazione come una delle principali mercanti donne, insieme a Barbara Gladstone e Marian Goodman, senza le quali la scena newyorkese sarebbe stata diversa e più povera.

A differenza di gallerie a conduzione maschile come Gagosian, Pace o Hauser & Wirth, non ha mai voluto costruire un impegno globale. «Si basa tutto sul controllo e ci sono sempre grandi lotte», dice, arrampicata dietro una scrivania piena di pile di carte e libri, senza computer in vista, con i capelli raccolti in modo disordinato. Il suo modus operandi è di più basso profilo. «La mia è un’attività a conduzione familiare ed è quello che voglio, dice. Guardate i giovani: David Zwirner è un moderno magazzino d’arte e gli piace così. Ma io non voglio avere cento persone alle mie dipendenze, voglio sapere che cosa sta succedendo nel mondo. Potrei far fare tutto ai dipendenti, ma dove sta il divertimento? E ho sempre pensato che se sei interessato a fare soldi, farai soldi». Nel mare delle megagallerie, la Cooper si distingue perché gli artisti amano lavorare con lei. A lei importa del loro lavoro e della tenuta della loro carriera più che del successo di mercato a breve termine. Una mossa brillante è stata prendere nella sua scuderia Tauba Auerbach nel 2012. Quando Jeffrey Deitch ha chiuso la sua galleria per assumere, per un breve periodo, l’incarico di direttore del Los Angeles Museum of Contemporary Art, la giovane artista astratta è rimasta senza gallerista ed è stata corteggiata da importanti gallerie prima di scegliere Paula Cooper. «Non credo che si debba dire a un artista che cosa fare, anche se faccio sempre sapere loro che cosa penso più attraverso il silenzio che non con le parole, spiega la gallerista. Devi essere diplomatico. Se l’artista si fida di te allora prenderà in considerazione i tuoi consigli. Non penso che si possa chiedere a un artista di modificare la sua opera finché non la vedi e pensi che sia davvero orribile». Si è mai trovata in questa situazione? «Abbiamo presentato una mostra a cui ero contraria, e l’artista lo sapeva. Trovavo che le opere fossero troppo sottotono, ma alla fine sono riuscita almeno a farmi ascoltare dall’artista». Sui suoi progetti per i prossimi dieci anni la Cooper dice di non «pensarci più». Ride, citando l’attrice Hermione Gingold che, quando le chiedevano l’età, rispondeva «tra i 59 anni e la morte». Dice che lascerà la galleria a un paio di persone. «Saranno liberi di fare quello che vogliono», aggiunge, togliendosi gli occhiali dalla montatura nera. «L’unica cosa che mi preoccupa ora è che non so se i pochi artisti con cui lavoro che non hanno avuto ciò che meritavano potranno farcela».

La Cooper è stata uno dei pionieri della scena culturale di Chelsea, dove ha aperto nel 1966, e non ha in programma di trasferirsi nonostante i radicali cambiamenti del quartiere. «Ora è tutto così banale. Un tempo l’edificio accanto era un club di sadomaso; c’erano sempre tanti personaggi sgradevoli in giro, dice divertita. Il parco era pieno di travestiti e prostitute, ma aveva carattere. Ora è tutto molto carino, ma sta diventando un ghetto per gente benestante». Lo stesso vale per il mondo dell’arte, che secondo la gallerista è diventato «più grande ma più omogeneo. Si vestono tutti allo stesso modo». Ricorda gli happening degli anni Ottanta, «dove gli artisti erano molto potenti e iniziavano a diventare più simili ai loro mecenati. Tutti indossano le stesse cose e vanno negli stessi negozi a comprare maglioni di cachemire e vanno negli stessi ristoranti per cibo e vino identici». Stiamo forse cavalcando ancora la stessa ondata di consumismo, solo più grande? «Proprio in questo momento siamo in una fase dove una piccola fetta della popolazione mondiale è mostruosamente ricca e gestisce tutto. Molti di loro collezionano arte come investimento, per dare lustro alla loro immagine, per arricchire la loro vita sociale», spiega. Pur trovando «interessanti perché coinvolgono tutto il mondo» gli aspetti internazionali della crescita del mercato dell’arte, non trova eccitante la forte accelerazione del mercato. «È troppo. In giro c’è tanta arte fatta molto in fretta. Oggi tutti possono fare gli artisti; basta avere una fotocopiatrice. Viviamo in tempi instabili». Per quanto riguarda l’immagine di sé che lascerà in eredità, sostiene di non pensarci: «Recentemente mi è stato fatto notare che non so che cosa pensano gli altri di me, ed è perché non mi interessa. Voglio solo fare quello che mi va di fare». Non mostra segni di voler rallentare. «Sono più che mai totalmente immersa nel mio lavoro. Vediamo che cosa capiterà quando sarà il momento. Un giorno potrei semplicemente decidere di ritirarmi», aggiunge poco convinta. 

Charlotte Burns, 23 febbraio 2016 | © Riproduzione riservata

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