Una mascolinità metrosexual come quella di Gucci

Una mostra sull’abbigliamento maschile al Victoria & Albert Museum è un’istruttiva esperienza su come e quanto il denaro della moda sia irrinunciabile per media e musei

Da sinistra, lo stilista britannico-americano Harris Reed indossa una delle sue creazioni nello stile «Fluid Romanticism» (Cortesia di Harris Reed. Foto Giovanni Corabi), «Ritratto di Charles Coote, primo Conte di Bellomont (1738-1800), nelle vesti dell’Ordine del Bagno» (1773-74) di Joshua Reynolds (© National Gallery of Ireland) e «Jean-Baptiste Belley» (2014) di Omar Victor Diop (Cortesia di MAGNIN-A Gallery, Parigi. © Omar Victor Diop)
Bruno Muheim |  | Londra

Il mondo museale sa tenere molto bene le distanze dal denaro di provenienza privata, come dimostrano le recenti polemiche sull’utilizzo dei finanziamenti della famiglia Sackler, proprietaria di Purdue Pharma e generosa donatrice dei maggiori musei inglesi e americani, oltre che produttori dell’OxyContin, responsabile di centinaia di migliaia di morti. Anche se alcuni dicono che sembra un po’ strano togliere il nome dei Sackler da tutte le liste dei mecenati, dopo aver accettato donazioni e fondi per anni, dal momento che tutti erano da tempo a conoscenza dell’origine della fortuna Sackler.

Tuttavia, c’è un settore economico che stranamente sfugge a questa rigorosa attenzione ed è quello della moda, più specificatamente i grandi gruppi di moda e la stampa specializzata che tratta di questo argomento. Ci sono certamente splendidi interventi di mecenatismo provenienti dai grandi nomi della moda, come per esempio il finanziamento del restauro del Colosseo di Roma a cura dei fratelli Della Valle, proprietari tra l’altro del marchio Tod’s.

Altri interventi mescolano potere dell’immagine e capacità finanziaria. L’Anna Wintour Costume Center è un’ala del Metropolitan Museum of Art che ospita la collezione del Costume Institute. Il centro prende il nome dalla donna sempre presentata come la più potente del mondo della moda, e presidente di «Vogue America», benché il centro sia stato finanziato da Lizzie e Jonathan Tisch.

In questo caso il potere di Wintour è considerato più importante di chi ha finanziato l’operazione, ma non pare che Wintour sia un’accademica, una collezionista o una ricercatrice che potrebbe meritare tale onore. Abbiamo già visto una serie di mostre tematiche dedicate, per esempio, a Dior, Valentino, Saint Laurent, e finanziate dall’azienda titolare della commercializzazione del loro nome. È evidente che si tratta di nomi che meritavano una retrospettiva museale.

Questo detto, molto spesso sia la scelta dei capi, sia le schede del catalogo, sia l’allestimento sono opera della casa di moda, lasciando così poco spazio al personale dei musei ospitanti. Si tratta di una sana operazione di marketing per la casa di moda e per il museo, che così si garantisce un incasso importante. Il tutto ottenuto in modo dignitoso.

Altre operazioni sono molto più subdole. Il Victoria and Albert Museum, una delle sei massime autorità mondiali nel campo della moda sia per le sue collezioni sia per le sue mostre, dal 19 marzo al 6 novembre ha organizzato «Fashioning Masculinities: The Art of Menswear» (Modellando le mascolinità: l’arte dell’abbigliamento maschile), titolo generico che dovrebbe dunque dare una visione globale della moda maschile.

Il comunicato stampa lascia già molto perplessi, concludendosi con la frase «il sostegno finanziario è più che mai vitale per il V&A. Aiutaci a ringraziare lo sponsor della mostra Gucci». Dunque posso senza problemi non parlare della mostra, ma solo dello sponsor Gucci: una visione decisamente strana del giornalismo. Rimasto assai perplesso da questo annuncio, ho riletto il comunicato e ho trovato tutto l’insieme molto sospetto.

È possibile suddividere la moda maschile in quattro segmenti. Il primo, la moda tradizionale, riproduce all’infinito modelli vecchi di oltre centocinquant’anni, per cui un uomo classico attuale è vestito esattamente come il suo antenato del 1880. Si dice che gli anni Venti del secolo scorso hanno liberato la donna dal corsetto, che cento anni dopo lo streetwear ha liberato l’uomo dalla fatalità della cravatta: questo è il secondo segmento.

Il terzo è un uomo essenziale e minimalista, rappresentato da tutta una serie di creatori giapponesi, tedeschi, belgi e anche italiani come Prada. Il quarto segmento è infine quello di un uomo la cui immagine raggruppa realtà diverse come metrosexual, fluido, queer, fashionista e hipster. Si tratta di un uomo che gioca su tutti i livelli della seduzione, dell’apparenza trans ma senza appartenere a quel mondo, è anche attratto dal vintage e dal trash.

È l’erede naturale di Oscar Wilde e un po’ snaturato di Beau Brummel. La mostra al V&A sembra quasi interamente dedicata a questa versione della mascolinità (dico sembra, perché non essendo la mostra ancora aperta nel momento in cui ne scrivo, giudico dal comunicato stampa, peraltro molto completo). Stranamente è esattamente l’uomo Gucci, quello che propone da anni il suo direttore creativo Alessandro Michele.

Sarebbe interessante capire se il V&A, avendo in mente questa plasticità dell’abbigliamento maschile, abbia contattato Gucci oppure se Gucci, volendo trasmettere la sua immagine di moda maschile, abbia proposto e finanziato una mostra su questo approccio specifico.

Per intenderci, Vuitton propone un’immagine totalmente diversa, una visione alterata di uno streetwear di lusso: il V&A avrebbe organizzato una mostra diversa se fosse stato il gruppo Lvmh lo sponsor? Così il mondo accademico dei musei mi sembra un po’ ingenuo nel suo approccio al mondo della moda.

Non si chiederebbe alla Marlboro di sponsorizzare una mostra sui cowboy, alla Boeing una rassegna sulle macchine volanti di Leonardo da Vinci o alla Bayer una sull’apicultura ai tempi della Roma Antica... Potrebbe essere il bacio della morte.

Tutto questo mi ha ricordato una polemica molto interessante di oltre vent’anni fa. Le tre firme più prestigiose del «New York Herald Tribune» erano l’umorista Art Buchwald, la papessa della moda Suzy Menkes e l’intelligenza più rigorosa del mondo dell’arte Souren Melikian. Art Buchwald aveva un umorismo devastante ed era temuto da tutto il mondo politico, tanto che mai un presidente degli Stati Uniti d’America si sarebbe permesso un commento negativo su un suo articolo.

Souren Melikian aveva anticipato tutte le devianze attuali del mercato dell’arte e la pubblicazione, il sabato, del suo articolo spesso aspro, era temutissima da tutti, e mai Christie’s o Sotheby’s si sarebbero permesse d’interpellare la redazione dell’«Herald» per una rettifica. Suzy Menkes è stata la firma più importante del mondo della moda, i suoi resoconti delle sfilate erano dei capolavori di cultura e di intuizione, ma se qualcosa non le piaceva lo diceva, certo sempre in modo molto garbato.

A causa della recensione negativa di una sfilata poco ispirata di Dior, le fu vietato l’accesso a tutte le sfilate del gruppo Lvmh e subì lo stesso trattamento anche da Versace. Il mondo della moda può permettersi atteggiamenti a dir poco non rispettosi dei diritti fondamentali. Il potere della moda è colossale per una sola ragione, il denaro. Senza i suoi budget pubblicitari la stampa sarebbe moribonda e i musei perderebbe i loro maggiori mecenati. La messa è finita...

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Bruno Muheim