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Louisa Buck
Leggi i suoi articoliIl materiale isolato dal Premio Nobel Novoselov nelle nuove opere di Cornelia Parker: nel suo lavoro violenza e rinascita convivono, come in Beckett, fra dramma e tragicommedia
Cornelia Parker (Cheshire, Gran Bretagna 1956) è nota per la sua capacità di trasformare oggetti familiari quotidiani in forme inconsuete, spesso con grande enfasi, come le pallottole lavorate fino a diventare fili metallici, gli esplosivi usati per fare disegni, gli oggetti in ottone appiattiti con un rullo compressore a vapore o, nel 1991, «Cold Dark Matter», frammenti di una casetta da giardino fatta esplodere, disposti come una costellazione che ruota intorno a una lampadina, creando incredibili giochi di luce. Quest’opera appartiene alla Tate ed è esposta dal 14 febbraio al 31 maggio nella mostra dedicata all’artista per la riapertura della Whitworth Art Gallery di Manchester, accanto a nuove commissioni realizzate con il tessuto rosso utilizzato per i papaveri commemorativi e il grafene, il nuovo, rivoluzionario materiale elaborato a Manchester. La Parker, una di tre figlie di padre inglese e madre tedesca, fino ai 14 anni è vissuta in un cottage in stile Tudor, in una piccola proprietà terriera del Cheshire dove, ogni giorno dopo la scuola, lavorava con il padre nei campi e si occupava del bestiame. A 15 anni andò per la prima volta a Londra in gita scolastica e visitò la Tate, il suo primo museo, un’esperienza che la trasformò. Nel 1978 si laureò al Politecnico di Wolverhampton. Vive a Londra, dove la sua galleria di riferimento è la Frith Street, che la rappresenta con Lucien Terras di New York, Carles Taché di Barcellona e Guy Bärtschi di Ginevra.
La violenza è spesso presente nelle sue opere. Perché la affascina?
La violenza è presente anche nella società, la sperimentiamo tutti e ne siamo quotidianamente bombardati nelle notizie. Il mio lavoro vuole metabolizzare tutto questo. Ma i miei temi sono anche piuttosto tragicomici: c’è un senso dell’umorismo perché le persone che mi piacciono di più, come Samuel Beckett ad esempio, sono dark ma anche molto divertenti. I temi della vita, della morte e della resurrezione saltano sempre fuori: per far nascere qualcosa di nuovo è necessario prima uccidere qualcos’altro.
Alcune di queste morti sono molto estreme.
Può trattarsi di una morte orchestrata da me con un rullo compressore a vapore o un’esplosione o un oggetto gettato dalle scogliere di Dover o, in alternativa, un oggetto può essere «morto» perché trascurato, come vent’anni di patina su un regalo di matrimonio in argento, o attraverso un processo naturale come avviene al Beachy Head (il promontorio di gesso sulla costa dell’East Sussex, Ndr) che si sta sgretolando nel mare. Poi lo porto a nuova vita, restituendogli volume o dandogli una nuova forma o, nel caso degli strumenti musicali schiacciati, sospendendoli: la ragione per cui si librano proprio sopra al pavimento è perché questo corrisponde più o meno allo spazio che occupavano in precedenza.
Qual è il concetto alla base della sua nuova opera che utilizza i rotoli di carta usati per fare i papaveri?
L’opera si intitola «War Room»: è semplice e molte persone potrebbero non capire di che cosa si tratta esattamente. Ho visitato la British Legion Poppy Factory di Aylesford nel Kent, e ho deciso di usare i rotoli di carta con le sagome dei papaveri ritagliati per trasmettere il concetto di assenza. La sala è completamente coperta di questa carta, è come una tenda gigante e una grande opera di Optical Art. Muovendosi per la sala si percepisce un effetto luccicante tipico del tessuto moiré. La chiave è l’assenza. Dove sono finiti i fiori? I papaveri sono stati tutti raccolti da una macchina. In una sala c’è la casetta esplosa e dall’altra parte c’è la «War Room» che sembra quasi una conseguenza: c’è un’esplosione e ci sono migliaia di spazi vuoti.
Lei ha lavorato spesso con gli scienziati e immagino che sia stata avvantaggiata dal fatto che il Whitworth sia parte dell’Università di Manchester.
Sì, l’Università è perfetta per me perché ha grandi risorse. Sarò professore onorario per tre anni quindi potrò lavorare ancora con gli scienziati. Per questa mostra ho collaborato con Konstantin Novoselov, il professore di fisica che ha vinto il Premio Nobel per aver isolato il grafene a Manchester con il suo tutor Andre Geim. Il grafene è spesso quanto un atomo ed è l’elemento più resistente al mondo, con tutta una serie di strane proprietà: è trasparente, è un super conduttore, potrà rivoluzionare le batterie ad esempio. Spero che salverà il mondo! Viene dalla grafite e inizialmente mi ci sono avvicinata grazie al mio interesse per il disegno, ma questa sostanza ha riunito il mio interesse per il disegno, l’energia e l’ambiente.
Che cosa ha intenzione di farne?
Quando ho incontrato Kostantin Novoselov gli ho chiesto se poteva ricavare del grafene dai disegni antichi della collezione del Whitworth: il suo viso si è illuminato e mi ha risposto che sarebbe stato divertente. Ha esaminato la collezione di disegni con un conservatore; uno dei loro compiti è stato quello di osservare le opere al microscopio e asportare ogni traccia di grafite che si trovava nelle pieghe degli album da disegno o che fluttuava sulla superficie dei disegni. Con grande cautela il conservatore ha prelevato dei piccoli granelli di grafite dalle opere di Constable, Turner, Girtin, Picasso e Blake. Quest’ultimo mi interessa molto per via di «Jerusalem» e «Bunhill Fields» (le opere della Parker che usano calchi delle fenditure dell’asfalto, realizzate a Gerusalemme e a Bunhill Fields, dov’è sepolto Blake, Ndr), amo molto l’artista e la sua poesia ricca di meteore e di elementi legati agli elementi. Avevamo già parlato del fatto che avrei riaperto il Whitworth con fuochi d’artificio con una delle mie meteoriti, quindi mi sono chiesta se in qualche modo potevo inserire questo granello di grafite di Blake come catalizzatore dell’opera per dare il via ai fuochi d’artificio. Kostya ha detto che lo avrebbe usato come sensore, aggiungendo: «Basterà un semplice respiro». A quel punto ero ancora più eccitata perché il respiro è un altro elemento chiave del mio lavoro. Kostya respirerà su questo pezzo di grafene, che ha trasformato in una sorta di transistor, che invierà un impulso elettrico per attivare i fuochi d’artificio, che a loro volta conterranno della polvere di meteora.
Più di molti artisti lei è sempre più coinvolta nel tema dell’ambiente.
Penso sia sempre più evidente che si tratta di una questione impellente: non faccio opere apertamente politiche perché ritengo sia più efficace parlare direttamente. L’ambiente influenza tutto e invecchiando si capisce che è un argomento molto complesso. Quando sono andata a vedere Noam Chomsky al Mit e ho girato il film «Chomskian Abstract», volevo capire come siamo arrivati a questo punto e perché nessuno faceva niente al riguardo. La cosa più importante che mi ha detto Chomsky è stata che il capitalismo ci spinge a passare l’intera vita a uccidere noi stessi e il nostro pianeta per riempire le nostre case di cose di cui non abbiamo bisogno e che non useremo mai.
Al tempo stesso però lei espone e vende opere nelle principali fiere d’arte. Che cosa pensa dell’espansione apparentemente inarrestabile del mercato dell’arte?
Mi piace l’idea che i potenti o qualche mercante d’arte possieda il disegno fatto con una pallottola, o degli oggetti d’argento che si ossidano in un angolo, è sovversivo. Ma faccio anche io parte del mondo, guido una macchina, vado in aereo e uso il cellulare. Tutti siamo partecipi di questo problema, e non è facile. Per me la mia opera è un modo per capire il mondo, metabolizzarlo e renderlo sopportabile e poi cercare di contribuire al dibattito.
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