Tatiana Trouvé e il disorientamento creativo

Al Centre Pompidou la creazione di mondi conturbanti fra piante urlanti, disegni in lockdown e magia africana

L'artista Tatiana Trouvé © Claire Dorn
Anna Samson |  | Parigi

Tatiana Trouvé è nata in Italia, cresciuta in Senegal e da qualche decennio vive a Parigi. Tra installazioni, sculture e disegni crea un mondo immaginario in cui si intersecano interno, esterno, memoria, illusione, teatro, natura e atelier. Al suo lavoro inquietante e come sospeso in uno spazio temporale incerto è dedicata la personale «Il grande atlante del disorientamento», curata da Jean-Pierre Criqui, che si apre l’8 giugno al Centre Pompidou di Parigi. La mostra consiste in disegni di vari formati (tra cui quattro nuove opere di grandi dimensioni) sospesi al soffitto e appesi alle pareti, oltre a un disegno a terra e a sculture collocate dietro tendaggi. In un dramma quasi apocalittico vengono esplorate varie problematiche, dal lockdown imposto dal Covid-19 agli incendi nella foresta amazzonica del Brasile. Abbiamo intervistato Trouvé nel suo studio di Montreuil, nella periferia orientale di Parigi.

Per quale ragione ha intitolato la sua mostra «Il grande atlante del disorientamento»?
È un titolo che compare spesso nel mio lavoro. L’ho scelto perché cattura l’essenza intuitiva del fare arte. Nel mio atelier c’è sempre uno stato di disorientamento che consente di continuare a creare rimanendo in bilico tra due mondi. Quando si è disorientati si è attenti a cose che prima non si sarebbero notate, allo stesso modo in cui in montagna si guarda alle stelle come a una guida. È quando si è disorientati che iniziano ad accadere cose interessanti.

Come si manifestano tali istanze nel rapporto con l’architettura del Centre Pompidou?
Amo molto questo spazio perché assomiglia un poco ai miei disegni: un vasto cubo di vetro dove spicca la permeabilità fra interno ed esterno. Volevo fare un’istallazione a partire dai miei disegni in cui le sculture fossero percepibili da un punto di vista esogeno. Retroilluminate e celate da tendaggi, esse appaiono in controluce, come silhouettes e quasi disegni. Le opere grafiche sono appese ad altezze diverse: il visitatore può camminare sotto di esse e dare allo spazio l’impulso di fluttuare. Quello che cerco di fare è disorientare lo sguardo del visitatore; un gioco non solo frontale, ma che ci fa alzare o abbassare la testa, guardare a destra e a sinistra. Un grande disegno si stende sul pavimento espandendosi con diversi schemi e letture del mondo, dalle mappe dei sogni degli aborigeni australiani ai diagrammi del caos e delle cellule. Voglio che le persone si perdano all’ interno dello spazio espositivo e creino connessioni con i disegni.
«Untitled» (2022) dalla serie «Les Dessouvenus» di Tatiana Trouvé © Thomas Lannes; Courtesy of Gagosian Gallery © Adagp Paris
La mostra si apre con la serie «From March to May», realizzata durante la prima ondata Covid-19 nel 2020. Ogni giorno lei ha disegnato un’immagine su una prima pagina di quotidiano risalente al giorno prima, a partire da «Libération». Può spiegare meglio il suo metodo?
La prima pagina di «Libération»  ha fornito lo spunto per l’intera serie giacché il suo titolo, «Le Jour Avant», era un riferimento al film «The Day After Tomorrow». Ho pensato: «Se il giorno prima è già così, come sarà il giorno dopo?» Era come entrare in una guerra invisibile e immaginaria, senza sapere che cosa sarebbe successo con questo virus. Per le pagine di copertina avevo dei criteri di selezione. Innanzitutto ho scelto Paesi molto colpiti dalla pandemia, dove la gente era rinchiusa come noi, facile esercizio vista la sua diffusione a livello globale. In secondo luogo volevo una stampa indipendente, non tabloid o giornali di propaganda. Ciò che mi guidava era una sorta di rivelazione su quello che stavo facendo in studio e nella mia vita. Per esempio, ho disegnato il mio cane Lula sulla copertina del «Guardian». È buffo perché avevo realizzato una serie di sculture intitolate «The Guardian ovvero ritratti di persone immaginarie sotto forma di sedie» e Lula è anche il guardiano del mio studio. Ho disegnato una lunga fila di persone in attesa sulla soglia di un supermercato che entra nello stomaco del cane, un po’ come il lupo di Cappuccetto Rosso. Altre copertine sembravano sposarsi bene con l’ambiente del mio studio, così ho disegnato alcuni suoi particolari su di esse. L’ultima copertina è di «Libération» come la prima: in questo modo la serie risulta essere un ciclo. I 56 disegni costituiscono un’unica opera; non avrebbe senso separarli, sarebbe come strappare le pagine di un diario.

La pandemia ha influenzato il suo lavoro in altri modi?
Forse inconsciamente. È difficile dirlo: non ho ancora il distacco necessario per giudicare. È triste che i Paesi non abbiano preso iniziative più radicali; stiamo vivendo in una catastrofe ecologica e ciononostante le vendite di barche e aerei privati aumentano. Ogni volta che proviamo tormento, dolore o gioia, i nostri sentimenti dovrebbe emergere in ciò che facciamo. Da anni la mia coscienza ecologica mi orienta come cittadina e già prima nel mio lavoro avevo fatto scelte come quella di non usare più la resina o il plexiglas.

Ha detto di considerarsi soprattutto una scultrice, anche se è altrettanto nota per i suoi disegni.
Per me un disegno è una scultura; c’è pochissima differenza tra il mio lavoro scultoreo e quello grafico. Le mie sculture appaiono sovente nei miei disegni e viceversa, i miei disegni ispirano spesso le mie installazioni e non hanno nulla a che fare con la pittura. Decoloro la carta colorata industrialmente con la candeggina, usando prodotti da scultore mescolati a inchiostro di china blu o nero. Schiarisco i fogli per creare delle macchie da cui scaturiscono spazi, universi e mondi, altre immagini insomma su cui posso proiettare qualcosa. È come cercare di leggere i fondi di caffè. Uno dei miei nuovi disegni, intitolato «L’Escamoteur» da un famoso dipinto di Hieronymus Bosch con al centro un mago nell’atto di compiere la sua magia, è un mondo di riflessi e illusioni con tessuti simili a drappi, una colomba che vola, un cerchio imperfetto. Ho un intero atlante di immagini provenienti dalle mie installazioni che mi perseguita e ritorna come un leitmotiv, con sculture, fotografie o cose che colleziono. Nonostante l’assenza della figura umana ho l’impressione che gli esseri umani vivano nel mio lavoro. Le opere della serie «The Guardian» sono ritratti di persone: non rappresento la figura ma i suoi desideri e le sue paure attraverso libri, vestiti e oggetti, come se ciascuna sedia fosse abitata da un fantasma.
«Il mondo delle voci» (2022) di Tatiana Trouvé © Florian Kleinefenn. Courtesy of Gagosian Gallery; © Adagp Paris
Il disegno «Il mondo delle voci» (2022) raffigura una foresta sovrapposta a una delle sue sculture. Che cosa l’ha ispirato?
La foresta è un luogo loquace, dove circolano molte voci. Le piante parlano, gli scienziati hanno trovato il modo di registrare le loro vibrazioni comunicative e durante le siccità urlano. Volevo tradurre l’energia di un simile ecosistema portando le mie sculture di rame in un mondo vivente. Desideravo combinare immagini positive e negative, come quando si guarda qualcosa per molto tempo, poi si chiudono gli occhi e se ne percepiscono, «one-at-onceness», i contrasti. Il disegno ritrae foreste reali, come il mio giardino, e immaginarie; non un paesaggio romantico ma il fumo di cose che bruciano. È molto difficile dire che cosa il quadro stia cercando di rivelarci: la sua complessità mi affascina.

In quale modo l’infanzia a Dakar, con le sue caratteristiche storie di spiriti chiamati «djinn», ha influenzato il suo lavoro?
A Dakar si diceva che il «djinn» vivesse nei giardini delle case. Il pensiero magico pervade il mio lavoro e questo è probabilmente qualcosa che deriva dalla mia infanzia. Mio padre era professore di architettura e scultore. Come molti figli di musicisti e artisti, mi sono subito confrontata con questo universo creativo e per me è stato facile disegnare e scolpire fin da bambina.

Quale ruolo ha l’intuizione nel suo approccio alle idee?
All’inizio mi conformo a un’idea per un disegno, ma tutte le scelte che faccio in seguito sono guidate dalla mia intuizione. Anche agli albori della mia carriera ho fatto arte in modo intuitivo. Quando ho realizzato il «Bureau of Implicit Activities» (1997-2007) raccogliendo le lettere di rifiuto di un lavoro ero un artista squattrinata, senza studio, con un vuoto enorme. Mi sono chiesta: «Sono ancora un artista anche se sono invisibile a tutti?». Intuitivamente ho preso questo vuoto e gli ho dato una forma. Un artista vive molto attraverso gli occhi degli altri, ma dobbiamo imparare a fare a meno del loro riconoscimento. È come vivere in un mondo solitario e indipendente, eppure sempre in cerca di un confronto.
«Notes on Sculpture» (2021) di Tatiana Trouvé © Florian Kleinefenn; © Adagp, Paris, 2022
Una delle sue serie si intitola «Intranquillity». Che cosa le trasmette un titolo simile?
Amo la parola «Intranquillity». È un’invenzione dello scrittore portoghese Fernando Pessoa e significa non essere tranquilli, ma nemmeno inquieti. Per me l’«intranquillità» è una forma di concentrazione. Bisogna rendersi disponibili a questa percezione. Mi fido dei visitatori: che siano catturati o meno dal mio lavoro, ciascuno di loro potrebbe percepire le cose in modo diverso. Non propongo una serie di eventi per intrattenere il grande pubblico, ma allestisco un universo e il visitatore è libero di entrarvi o di rifiutarlo.

Traduzione di Mariaelena Floriani

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