Padiglioni all’Arsenale | Trasformazioni e ibridazioni

L’atteggiamento antropocentrico pare aver lasciato il passo a uno spirito più critico e altruista al quale non manca certo l’immaginazione

Particolare dell'opera di Marko Jakše
Laura Lombardi |  | Venezia

I temi scelti dai Padiglioni Nazionali all’Arsenale sono assai in linea con lo spirito della mostra di Cecilia Alemani «Il latte dei sogni», all’insegna quindi della trasformazione, della ibridazione (spesso con echi surrealisti), della riflessione sulla fine dell’antroponcentrismo, con uno sguardo rivolto alle altre forme di vita del pianeta, specie dopo la pandemia. La componente fantastica e l’assunzione di ruoli altri dal proprio caratterizza il padiglione del Sud Africa, dove il lockdown appena trascorso è visto come una limitazione ma anche come una grande opportunità di esplorazione nella psiche e nell’immaginazione.

Phumulani Ntuli assume l’identità di «Godive» (che dà il titolo alla mostra) e, disfacendosi del suo abbigliamento africano, entra in un regno surreale dove sperimenta diversi stati dell’essere. Lebohang Kganye si ritrae come Neraneve (Snow Black) nella serie «B(I)ack to Fairy Tales» dove però, come suggerisce il titolo ambiguo, il ritorno alle fiabe dell’infanzia è piuttosto sui generis: in una township africana, narrativa occidentale e lotte politiche del Sudafrica convivono in una giustapposizione di immagini. Tutto l’irrazionale che è in noi, anche se invisibile, si materializza nei fantasmi di Roger Ballen: il suo «Teatro delle apparizioni», foto di disegni eseguiti con pitture e colle sulle vetrate di edifici abbandonati, riunisce figure archetipiche che compiono strani rituali.

La riflessione postpandemica connessa alla nostra condizione contemporanea e al tempo stesso la fiaba, sono temi che dominano il padiglione della Turchia curato da Bige Örer, dove espone Füsun Onur, la cui opera spesso fa uso di mezzi domestici e pratiche tradizionali, come tessuti e tessitura. In «Once upon a time...» Onur crea, con approccio molto minimalista, diversi teatrini di figure, a terra o sospesi. Creature realizzate con fili metallici piegati e ritorti che danzano, fanno musica, viaggiano e si innamorano: un mondo giocoso che rimette in discussione le logiche del «nostro occidente» e spinge a imparare dai non umani una forma diversa di vita comune. In una didascalia si legge infatti un monito contro gli uomini che pensavano di poter governare il mondo consumando tutto.

Nel padiglione di Singapore a cura di Ute Meta Bauer, il lavoro «Pulp III: A Short Biography of the Banished Book» di Shubigi Rao è invece dedicato al libro, strumento con cui si tramanda la conoscenza, prassi sempre in pericolo, spesso sottoposta alla censura da parte dei potenti.
Il libro diventa simbolo di tutto ciò che unisce, aggrega e che promuove la persistenza, la memoria, la consapevolezza e lotta contro la limitazione della libertà di espressione. Attraverso i libri, le ramificazioni di un albero tracciate a acquerello, e immagini in movimento, viene affrontato il tema delle lingue in via di estinzione e del futuro delle biblioteche pubbliche (sono infatti narrate le storie di antichi centri della stampa, tra cui Venezia e Singapore, e l’amore per chi i libri li custodisce e protegge).

Il monumentale «The teaching tree» di Muhannad Shono nel padiglione dell’Arabia Saudita, curato da Reem Fadda, riempie completamente lo spazio, sviluppandosi intorno a una linea ricoperta di vegetazione, ad incarnare, spiega l’artista, «lo spirito irrefrenabile dell'espressione creativa: la forza dell'immaginazione che cresce nonostante ciò che può tentare di limitarla ma invece lo rende più resistente». Una forma di resilienza che la natura stessa ci insegna, «nei suoi continui cicli di morte e ricrescita, come alberi nutriti dalle ceneri degli incendi». La struttura che costituisce l’albero è ricoperta di fronde di palma essiccate dipinte e agitate da un meccanismo robotico, che sembra produrre una sorta di respiro: un’incarnazione della tecnologia oppure, invece, una carcassa intrisa di inchiostro nero o di petrolio dove la lotta per l’apprendimento è anche lotta per la sopravvivenza.

Nel padiglione del Messico, curato da Catalina Lozano e Mauricio Marcin, «Hasta que los cantos broten» (finché non sbocciano i canti) è un invito a «essere con» superando forme di patriarcato, di razzismo, violenza in un futuro decoloniale che liberi anche la nostra soggettività. Un intervento che i curatori definiscono «umile», spinto alla pluralità, alla simbiosi e alla solidarietà. «Calendar Fall Away» di Mariana Castillo Deball è una grande incisione che ricopre l’intero pavimento e che allude al calendario usato per trasformare il calendario mesoamericano in calendario gregoriano, con riferimento a tutti i documenti ibridi che seguono la colonizzazione dell’America. Le rovine della civiltà postmoderna sono invece in «Sonnet of Vermin», la videoinstallazione di Naomi Rincón Gallardo che indaga i concetti riferiti alla malavita mesoamericana e le pratiche funerarie mixeche per mettere in luce i processi estrattivi antiecologici che si svolgono in alcune regioni dello stato di Oaxaca.

L’installazione «Tetzahuitl (Omens)» di Fernando Palma Rodríguez si articola intorno ai 43 abiti per ragazze, creature ibride, misto tra divinità umane e animali, che si muovono secondo schemi ispirati agli sciamani mesoamericani quando diventano uccelli notturni, alludendo alle manifestazioni delle divinità nahua che annunciano e provocano eventi futuri. Alla base del lavoro c’è la volontà di sensibilizzare il pubblico su temi quali la devastazione ecologica, le migrazioni forzate e le forme di violenza provocate dal capitalismo. Infine, i 23 tessuti di Santiago Borja Charles (in collaborazione con i tessitori di El Camino de los Altos) reinterpretano in modo sperimentale come il genoma umano sia stato rappresentato nella scienza, e quindi sul modo binario in cui la modernità ha separato natura e conoscenza.

Nel padiglione della Slovenia, curato da Robert Simonišek, muovendoci su un pavimento ricoperto di sabbia, siamo calati nell’universo dei dipinti di Marko Jakše, dove è più che mai forte il richiamo al surrealismo: un libero gioco unisce creature umane e bestiali che si muovono in paesaggi stranianti, popolati da architetture senza tempo. Esseri ibridi, fantasmi, animali urlanti tendono a insinuarci dubbi sull’effettivo dominio della natura, sul ruolo della scienza ma anche sulla presunta consapevolezza di ciò che siamo, insomma sul dramma delle passioni e dei desideri umani.

Si affronta l’ibridazione anche nel padiglione Argentina a cura di Alejo Ponce de León. Qui troviamo il lavoro di Mónica Heller che si compone di vari moduli, con schermi di diversi formati, posati per terra, o sospesi, alcuni dei quali anche sferici, nei quali si svolgono narrazioni in 2 e 3D animate da personaggi fantastici (umani e animali) e oggetti antropomorfi che si trasformano a partire dalle cose che trovano intorno a sé.

BIENNALE DI VENEZIA

© Riproduzione riservata Particolare dell'opera di Füsun Onur
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