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Sono nato uno che guarda

Chiara Coronelli

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Si è detto molto di Mario Dondero nei giorni successivi alla sua scomparsa, avvenuta lo scorso dicembre nella sua casa di Fermo, a 87 anni. Una sorta di tributo collettivo nel quale ricorrono i riferimenti all’integrità e alla coerenza dell’impegno, alla passione per la libertà e per l’amicizia, all’amore per il vero, a un’umanità che è anche senso di appartenenza alla storia del mondo e alle persone, vero centro dei suoi scatti.

«Non voglio essere ricordato perché ho fatto belle foto, ma perché ho voluto bene alla gente», diceva, e questa partecipazione si riscontra in ogni inquadratura della sua Leica.

Il suo lavoro attraversa il secondo Novecento partendo da Milano, dove era nato, e dove torna dopo la lotta partigiana, cominciando come giornalista. Il bar Jamaica diventa la sua «Università», dove trova tra gli altri Alfa Castaldi, Mulas, Balestrini, Bavagnoli; è grazie a Giuseppe Trevisani che passa alla fotografia, perché sono «la libertà del fotografo, la solitudine, l’intimità con le persone» a conquistarlo.

Si sposta a Parigi nel 1955 e ci rimane per trent’anni, mentre le sue immagini compaiono su testate tra cui «L’Unità», «L’Espresso», «Epoca», «Le Monde», «Il Manifesto». I reportage lo portano dall’Italia del dopoguerra alla Sorbona occupata, dalla guerra d’Algeria all’America Latina, dalla politica agli scrittori, in un viaggio senza sosta dove, ha detto, «ho sempre pensato a un racconto incentrato sull’osservazione di fatti minimali, su ciò che nella società rimane latente e deve essere riportato alla luce», e che il suo «sono nato uno che guarda» spiega meglio di ogni parola.

Chiara Coronelli, 11 gennaio 2016 | © Riproduzione riservata

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Sono nato uno che guarda | Chiara Coronelli

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