Uno rilegge Manette Salomon dei fratelli Goncourt (fa bene all’anima a prescindere, garantisco) e non può fare a meno di pensare ai nostri tempi: non tanto per constatare tutto quello che, è ovvio, non c’è più, ma sorprendendosi di quante cose, in un secolo e mezzo, non sono cambiate, o magari hanno dimenticato di evolversi.
Il libro esce nel 1867: Ingres è appena morto, Courbet ha appena dipinto «Le Sommeil», una roba lesbo che oggi non la potresti pubblicare neanche sui social, Manet ha già fatto il suo po’ po’ di scandali, per dire. Ed è cominciata quella che i fratelli chiamano «la vita militante dell’arte», il gioco delle strategie per cui, invece di vivere la contemporaneità, se ne parla, la si recita, la si trasforma in una posa intellettuale e subito in blague, in parodia.
Ohibò, ecco una cosa che funziona da allora, e che fa il paio con la sterilità che rende l’arte incapace di «parlare alla passione di nessuno». Quando leggi che nelle grandi scuole d’arte i maestri ...
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