Si è spenta una Stella

La carriera inimitabile di Stella Rudolph è un'eredità per le nuove generazioni di storici dell'arte

Stella Rudolph
Alessandro Agresti |

La scomparsa di Stella Rudolph, avvenuta a Firenze il 17 maggio, è arrivata come un fulmine a ciel sereno, ancor di più per chi ha avuto la fortuna non solo di conoscerla, ma di frequentarla: la vitalità e l’entusiasmo che la contraddistinguevano non lasciavano davvero presagire una fine così repentina. Era una donna accogliente e prodiga di consigli con i colleghi, specialmente con quelli più giovani (qualità rara), pronta a spronare gli studiosi, spesso a continuare quello che lei aveva iniziato, a proseguire i sentieri che lei per prima aveva percorso, senza sentirsi minimamente minacciata o sminuita.

La sua è stata una carriera inimitabile, coerente fino all’ultimo con quella libertà di pensiero e di azione che l’hanno sempre contraddistinta. Nata in Inghilterra nel 1942, viene in Italia, a Firenze, per studiare. I suoi primi interventi risalgono alla fine degli anni Sessanta e sono dedicati alla pittura nella città medicea tra Sei e Settecento, con uno sguardo privilegiato sulla storia del collezionismo. I suoi saggi sono apparsi a più riprese su «Arte Illustrata» tra il 1972 e il 1974. Nel 1969 inizia a occuparsi di pittura romana, campo d’indagine che poi diverrà esclusivo. Esordisce con un pionieristico contributo su Pier Francesco Mola, seguito nel 1972 da una pungente recensione della monografia di Mola scritta da Richard Cocke.

La giovane Rudolph scrive con un acume spinto fino alla spietatezza, seziona il volume individuando puntuale gli errori, in poche pagine fornisce osservazioni davvero illuminanti su un pittore difficile e sfuggente, specialmente a quel tempo, come il ticinese Mola. Ed è sempre negli anni Settanta, per la precisione nel 1977 per «Paragone», che è datato il suo primo studio sul pittore Carlo Maratti. Non casualmente il saggio è dedicato all’opera di esordio del maestro marchigiano: la pala per la Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami. La Rudolph non ha poi pubblicato la tanto attesa monografia di Maratti, ma ha dedicato al pittore innumerevoli contributi culminati in uno dei capolavori della letteratura artistica del Novecento: Niccolò Maria Pallavicini: l’ascesa al tempio della virtù attraverso il mecenatismo (Bozzi, 1995). Sempre del 1977 è un saggio sull’allora dimenticato Girolamo Troppa, uno di quei «petit maȋtre»che funge quasi da cartina di tornasole per gli sviluppi della pittura del Barocco romano.

Nel frattempo si moltiplicano i saggi su Maratti, affondi sempre più specifici che da diverse angolature ne sfaccettano la personalità e la produzione. L’incontro con Gian Lorenzo Mellini, studioso di livello assoluto oggi quasi dimenticato che diverrà suo marito, porta a una virata improvvisa degli interessi della Rudolph, che con il volumetto Giuseppe Tambroni e lo stato delle arti a Roma nel 1814 (Istituto di Studi Romani, 1982) continua a occuparsi della produzione pittorica capitolina, ma in piena temperie neoclassica; di lì a poco darà alle stampe un corposo repertorio della Pittura del ’700 a Roma (Longanesi, 1984).

Per la rivista «Labyrinthos», creata insieme a Mellini, certamente una delle più interessanti tra le tante venute alla luce nella seconda metà del Novecento, la Rudolph scrive alcuni dei suoi saggi più famosi e riusciti, che ancora oggi sono delle pietre miliari per le ricerche sulla pittura romana del XVIII secolo: fra tutti Il punto su Bernardino Nocchi (1985) e il Primato di Domenico Corvi nella Roma del secondo Settecento (1982) dedicati a due pittori che al tempo erano poco più che dei nomi persi nella nebulosa conoscenza che avevamo di quel periodo davvero cruciale per le arti in Italia (e non solo).

La Rudolph ripercorre con sicurezza e chiarezza le carriere di questi due pittori contestualizzandone l’evoluzione estetica e poetica con una precisione e un acume ancora oggi insuperati, fornendo anche un affresco davvero vivido della Roma del tempo. Nel frattempo continuarono senza sosta i lavori su Maratti, culminati col già citato volume sul Pallavicini. Dopo il 1995 Stella scrisse quasi sempre su Maratti, a parte affondi su Pompeo Batoni (2009) Francesco Trevisani (2008) e ancora su Domenico Corvi, in un lungo saggio nel catalogo della mostra del 1998.

Proprio da quell’ennesimo, eccellente studio che ancora una volta apriva a inediti e inaspettati percorsi di ricerca sarebbe scaturito, anni dopo, il mio incontro con Stella. Ero giovane, avevo appena iniziato il dottorato e decisi di occuparmi del cardinale Domenico Orsini, che fu non solo un committente di Corvi, ma che ne scoprì il talento lanciandolo letteralmente a Roma con le prime opere pubbliche. Ovviamente lei ne aveva scritto per prima, intuendone la statura: mi accolse nel suo studio dietro al Museo Bardini, dove ai piani superiori abitava, e per prima cosa mi vietò di darle del lei, cosa che mi spiazzò non poco.

Fu subito accogliente e man mano che le esponevo i documenti che avevo trovato fino a quel momento diventava sempre più entusiasta per il lavoro che stavo svolgendo: accettò di diventare la mia tutor e ci vedemmo almeno una volta al mese per i tre anni successivi.

Nonostante le non poche difficoltà del lavoro che stavo svolgendo, uscivo dal suo studio sempre pieno di ardore e di voglia di fare, con una sensazione d’inguaribile ottimismo e di fiducia che solo lei riusciva a darmi, e che mi donò anche negli anni successivi. Il mio libro sul cardinale Orsini non sarebbe esistito senza di lei: fu un onore avere un suo scritto per un volume che curai in omaggio al comune amico Fabrizio Lemme. La sentii l’ultima volta al telefono un mese fa circa: le dovevo portare un volumetto che avevo curato su Bernardino Nocchi, l’ennesimo pittore che lei aveva riscoperto, e dovevamo parlarle di altri lavori in corso, che riguardavano anche il Maratti.

Per me era diventata un punto di riferimento e sovente le facevo leggere i miei scritti per un consiglio, sapendo che avrei trovato una lettrice attenta ed esigente, una conversatrice brillante che aveva non pochi argomenti illuminanti da condividere. Aveva indubbiamente, come tutti, dei difetti: molti non le perdonano di non aver portato a termine la monografia su Carlo Maratti che costituisce una grave mancanza per gli studi sulla pittura romana tra Sei e Settecento e per la storia dell’arte europea. Più passavano gli anni più sembrava bloccata da questo lavoro e, per chi abbia lavorato con lei, erano noti e proverbiali i suoi ritardi nelle consegne.

Avrebbe voluto istituire una fondazione in onore del marito Gian Lorenzo Mellini, rendendo pubblica la raffinatissima collezione che avevano raccolto nella loro dimora fiorentina: un vero manifesto dei molteplici interessi, dei vari indirizzi di ricerca che insieme avevano seguito nel corso dei decenni. Aveva una tale empatia, una tale carica di umanità, uno charme e una simpatia così contagiosi che le si perdonava quasi tutto. In pochi casi, senza apparire retorici, si può scrivere che un’assenza lascia un vuoto difficilmente colmabile: lo si può affrermare senza dubbio, per Stella Rudolph, che univa alle doti intellettuali una sincera passione per le sue ricerche e i suoi studi, nonché una capacità di condivisione e apertura verso gli altri scevra di pregiudizi o doppi fini che non fossero quelli dell’evoluzione della Storia dell’Arte.

È forse questa la sua vera eredità, lasciata soprattutto alle nuove generazioni verso le quali ha sempre avuto un occhio di riguardo e alle quali ha insegnato non poco nonostante non abbia mai accettato incarichi ufficiali.

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