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Sfregio di pregio

Silvia Mazza

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Con una mostra di Nicola Samorì aperta fino al 30 aprile, Monitor acquista un'aria mistica e trascendente, riecheggiando le vicine e numerosissime chiese del centro di Roma

Nicola Samorì, «Ascia romana», 2015-2016L’artista trentanovenne, nato a Forlì e residente nel piccolo paese di Bagnacavallo (a 17 km da Faenza), utilizza le due grandi stanze dello spazio espositivo come un set in cui pittura e scultura sono interconnesse.

A un dipinto raffigurante san Bartolomeo ripreso da un quadro di Luca Giordano della metà del Seicento (già attribuito a Jusepe de Ribera), non solo è stato sfregiato il volto, processo tipico del lavoro di Samorì, ma dall’iconografia originale è stata omessa la testa marmorea in basso a sinistra (riferimento al tempo precristiano) per tornare in forma di fossile, poggiata a terra, poco distante dal dipinto: un legno vecchio di migliaia di anni che dialoga con il supporto stesso del quadro riaffiorante, appunto, nella parte «scorticata» del viso.

L’opera è, come dichiara lo stesso pittore, «un dispositivo di forze con una tensione centrifuga, in grado di contaminare tutta la stanza». Ed è proprio questo dialogo incessante tra pittura e scultura la parte più interessante della mostra ospitata negli spazi di via Sforza Cesarini. Una grande pittura su rame, sculture in marmo, un piccolo dipinto a olio raffigurante la Vergine Maria, tutte contribuiscono a creare, per usare ancora le parole di Samorì, un «coro involontario, un insieme che si è definito di opera in opera, con soggetti in preda a un obbligo infettivo che li costringe a imitare le sostanze degli altri, a rubarle, oppure a fingerle». Un’estetica teatrale di un barocco cupo e inquieto, in cui corpo e materia calano lo spettatore in una trasmutata esperienza fisica e psicologica.

Silvia Mazza, 03 aprile 2016 | © Riproduzione riservata

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Sfregio di pregio | Silvia Mazza

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