Chiara Coronelli
Leggi i suoi articoliPerpignan (Francia). Si svolge dal 27 agosto all’11 settembre la ventottesima edizione del Visa pour l’Image, il più importante festival dedicato alla fotografia di reportage, che dal 1989 torna a fine estate nel capoluogo francese dei Pirenei Orientali.
Ventidue mostre, proiezioni serali, incontri, premi (tra i quali i Visa d’or, il Prix Ani Pix-Palace, il Prix Carmignac e il Getty Images Grants) oltre agli appuntamenti annuali come quello con World Press Photo, richiameranno tutto il fotogiornalismo mondiale intorno alla kermesse fondata e diretta da Jean François Leroy. Nell’editoriale che dedica al Visa 2016, Leroy ricorda che a dispetto di quanti «annunciano “la fine di un’epoca, la fine di pezzi di cartone chiamati stampe” e difendono il concept e il “Visual Storytelling”, Visa pour l’Image ci ricorda che anche dei semplici testimoni sono fotografi incredibili», e che l’attualità riesce a imprimersi nei nostri sguardi e nella nostra memoria proprio «attraverso gli occhi di fotogiornalisti che fanno il loro mestiere onestamente, senza artificio», con grande coraggio e determinazione.
Oltre alle collettive «Daily Press» e «World Press Photo 2015», Leroy ha selezionato i lavori di venti fotoreporter, a partire dall’evidenza che quest’ultimo anno resterà segnato da due avvenimenti principali, gli attentati terroristici e le migrazioni.
Yannis Behrakis ha passato più di 25 anni seguendo migranti, i suoi scatti sulla crisi di oggi inseriscono ogni esodo in una prospettiva ciclica; mentre con Aris Messinis si assiste agli sbarchi di migliaia di profughi sull’isola di Lesbo; e con Marie Dorigny seguiamo donne e bambini in fuga da Siria, Afghanistan e Iraq, alla volta dell’Europa attraverso la Grecia e i Balcani. Frédéric Lafargue ci porta nella città irachena di Mosul, dove gli abitanti cercano di fuggire dal terrore imposto dal Daesh; mentre Yuri Kozyrev mostra un Kurdistan che combatte unito per ottenere l’indipendenza. Si passa alle contraddizioni del Brasile con Peter Bauza che si concentra sulla storia di Jambalaya, un immobile occupato da famiglie di senzatetto che vivono in miseria, ben lontane dalla propaganda esportata dal Paese. Sempre in Brasile le malformazioni genetiche provocate dal virus Zika, sono fotografate da Felipe Dana; e si resta in Sud America con Valerio Bispuri e il suo «Paco», reportage sulla nuova droga comparsa nelle bidonville di Buenos Aires. E ancora, la Corea del Nord di David Guttenfelder; la giovane città ucraina di Slavoutytch nata dalla catastrofe, a 40 chilometri da Chernobyl, percorsa dall’obiettivo di Niels Ackermann; l’emergenza ambientalista di Brent Stirton; bambini soldato colombiani di Juan Arredondo; l’omofobia in Africa ripresa da Frédéric Noy; il progetto di Anastasia Rudenko sugli istituti che accolgono gli adulti con malattie mentali, nelle provincie russe; i conflitti in territorio afghano di Andrew Quilty e quelli nel Sudan del Sud di Dominic Nahr; gli ultimi nomadi iraniani di Catalina Martin-Chico; la lotta per l’acqua tra Israele e e palestinesi di Laurence Geai; e il lavoro dei tecnici di scena che Claire Allard porta in primo piano. Fino al reportage del 1963, che Marc Riboud realizza in due giorni a Cuba, mentre è in attesa di un incontro con Fidel Castro.
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