Rosa Martínez: «Cominciamo a immaginare e a costruire a Venezia il laboratorio del futuro»

La curatrice spagnola, prima donna a dirigere (con María de Corral) un’Esposizione internazionale d’arte a Venezia, alla vigilia della presentazione della Biennale di Architettura affidata a Lesley Lokko riflette sui cambiamenti della manifestazione nei suoi 127 anni di vita e della città che la ospita

«Elefant / Elephant» (1987) di Katharina Fritsch
Rosa Martínez |  | Venezia

Sono passate ormai molte lune da quando sono venuta per la prima volta in questa città inverosimile. Un arcipelago di isole unite da quanto le separa: l’acqua della sua laguna. Un’acqua le cui maree crescenti e calanti seguono la forza gravitazionale della Luna e circondano 118 isole in un’area di non più di 12 km quadrati di circonferenza. Isole unite da ponti e calli ondeggianti che fanno di Venezia una città labirintica; e qualunque sia la meta, se chiedi a un abitante del luogo quale strada prendere, la risposta sarà invariabilmente «sempre dritto». Nel labirinto, sempre dritto, pensi. E ti perdi un’altra volta.

Per oltre tre decenni sono andata a Venezia per vedere la Biennale d’Arte e nel 2005 sono stata la prima donna a dirigere l’Esposizione Internazionale insieme a María de Corral, ognuna con una mostra diversa, rispettivamente all’Arsenale e al Padiglione Italia. Come dicevano le femministe di Milano, quella doppia scelta nella direzione della Biennale, per la prima volta affidata a una donna, era forse dovuta al fatto che nell’inconscio patriarcale due donne valgono un uomo? Questo si era riusciti a fare in 110 anni di esistenza della manifestazione…

Le cose però sono cambiate. E lo splendore di cui siamo stati spettatori nel 2022 grazie a Cecilia Alemani - la prima donna italiana a dirigere la Biennale, sì, in 127 anni di storia della manifestazione - con quasi il 90% di partecipanti donne, continua ora a delineare un orizzonte di speranza grazie alla nomina di Lesley Lokko, la prima donna africana direttrice della Biennale Architettura 2023. Il titolo della sua mostra, «The Laboratory of the Future» (Il laboratorio del futuro), sottolinea la ricerca, la sperimentazione e soprattutto la volontà di creare un futuro più dignitoso per gli abitanti del nostro pianeta.

Lesley Lokko è una professionista che parla partendo dalla propria esperienza, visione e coscienza, e che guarda il mondo dal punto di vista del luogo da cui proviene, l’Africa, continente di sfruttamento coloniale esasperato, discarica di tecnologie scartate dall’Occidente, territorio di capitalismo predatorio e di scontro geopolitico, ma anche luogo da cui reinventare il modo di abitare il mondo.
Lesley Lokko, curatrice della Biennale Architettura 2023 © Murdo Macleod
Ognuna di noi donne che abbiamo diretto la Biennale di Venezia lo ha fatto partendo dalla propria posizione, da ciò che era possibile fare in quel momento. Nel mio caso, per il focus femminista che ha dato corpo alla mia mostra all’Arsenale, mi ero ispirata a un libro del veneziano Hugo Pratt (Sempre un po’ più in là) e avevo intitolato la mostra «Sempre un po’ più lontano». Non pensavo alla fittizia progressione lineare della modernità, semmai ai divenire mutanti delle arti, alle trasformazioni che fan sì che queste  si dispieghino in direzioni rizomatiche, con linguaggi diversi e da prospettive formaliste, storiciste, femministe, ecologiche, postcoloniali, transgender, spirituali o implacabilmente critiche verso il neoliberismo che ci appiattisce. Nel tentativo di dare efficacia alla coscienza estetica e significato all’azione politica, avevo invitato le Guerrilla Girls.

Le loro statistiche erano agghiaccianti: nel 1895, anno di fondazione della Biennale, le donne partecipanti erano state il 2,4%, laddove nel 1995, ovvero un secolo dopo, la percentuale era salita solo al 9%. Ecco perché la Biennale d’Arte del 2022 «Il latte dei sogni» è stata così significativa, con incredibili capsule storiche in cui è emerso chiaramente come ci siano sempre state donne che hanno lavorato in orbite parallele e sincrone a quelle dei «geni» maschi, ma assenti dai libri di storia.

Girovagando tra le tante mostre della Biennale del 2022, ho trovato deplorevole la scarsa rilevanza dei padiglioni nazionali in questa edizione e sono rimasta estasiata da una minuscola opera di Marlene Dumas a Palazzo Grassi: l’«Annunciazione», un torso femminile immacolato. E ho camminato ancora per le calli, le corti, i giardini, i palazzi affittati al miglior offerente, e ho constatato, una volta di più, come a Venezia sia assai reale una fantasia ricorrente e terrificante, che si reinventa come un mostro multiforme e la stritola fin quasi a soffocarla: quella che la trasforma in un feticcio del marketing e la vende senza pietà agli interessi del capitalismo transnazionale e delle imprese immobiliari e turistiche.

Ho visto da lontano i grattacieli orizzontali delle navi da crociera che sovrastano lo skyline della città e ne infestano le acque; ho visto la trasformazione dei suoi edifici storici in centri commerciali con i marchi di lusso più stereotipati del pianeta; ho anche saputo della vendita di case e palazzi a compratori che poi ci vanno solo una volta l’anno; sono stata informata della crescente trasformazione di case in bed & breakfast...  Sintomi questi di come si uccide l’aura di una città i cui abitanti perdono sempre più la forza di vivervi dignitosamente e sono costretti a fuggire sulla terraferma...

I proclami del movimento futurista che nel 1910 invocavano la distruzione di Venezia in nome di un presunto progresso e proponevano di asfaltare il Canal Grande si esalterebbe oggi davanti a idee deliranti come quella di una cintura di grattacieli che circondi la città e da cui contemplare la parte storica come un’icona imbalsamata? E plaudirebbero al Palais Lumière ideato da un ormai novantenne Pierre Cardin per trasformare l’area degradata di Marghera in una megalopoli con uffici, alberghi, una «università della moda», un centro congressi... e un edificio 150 metri più  alto del campanile di San Marco? O piangerebbero dal dolore dopo aver subito uno dei temibili scivoloni sul ponte progettato e costruito da Santiago Calatrava?

Solo nel ‘900 Venezia è sprofondata di 23 cm e l’acqua alta, che tanto diverte i turisti che ci sguazzano in Piazza San Marco, è forse un chiaro segnale che il destino della città sarà come quello di Atlantide. Non è esagerato pensare a Venezia come a una civiltà a sé stante, perché la sua storia e la sua morfologia sono uniche sul nostro pianeta. L’Arsenale veneziano è stato immortalato da Dante; la peste e la bellezza sono state ricreate da Thomas Mann; gli arcani misteri sono stati ripercorsi da Hipazia, la guida di Corto Maltese nella Favola di Venezia che ha ispirato la mia mostra. Tutto ciò è tuttora contemplato in silenzio dalla bella madre nuda del paesaggio di Giorgione che, con il suo bambino in braccio e il suo sguardo penetrante, attraversa le pareti che la proteggono all’Accademia e interroga lo spettatore, mentre osserva l’avvicinarsi delle nuove tempeste.
Rosa Martínez, prima donna a dirigere un’edizione dela Biennale di Venezia nel 2005
L’arte è stata ed è uno dei campi che ha tenuto in vita Venezia a dispetto di tutto e di tutti, grazie soprattutto alla Biennale e ai suoi numerosi festival, che anno dopo anno accolgono curatori, curatrici, artisti, artiste, collezionistə, architettə, attori, attrici, produttori, produttrici, magnati dell’arte, speculatori, speculatrici, e visitatori e visitatrici d’ogni sorta. La Biennale propone una passeggiata arcadica attraverso i suoi Giardini, come se le differenze geopolitiche si potessero temporaneamente sospendere, o come se, al contrario, vi si potessero proclamare e combattere in modo simbolico i conflitti che distruggono la convivenza collettiva...

Il fatto che grandi fortune del pianeta abbiano visto in Venezia il luogo ideale per mostrare al mondo il loro prestigio e il loro glamour in qualche caso ha contribuito a sostenere la città. Oltre a Peggy Guggenheim, con la sua Fondazione e il cimitero per i suoi cani, o a François Pinault, con l’impeccabile restauro di Punta della Dogana, ci sono anche artisti come Anish Kapoor che fanno rivivere i palazzi con le loro opere, mentre emergono sorprendenti possibilità di rinascita di un’intera isola, quella di San Giacomo, recentemente acquistata dall’imprenditrice torinese Patrizia Sandretto. Il Gran Teatro del Mondo continua a riaccendersi a Venezia con migliaia di proposte, con un’attività incessante in cui tutti vogliono essere attori, protagonisti o semplicemente spettatori.

In questo contesto, una cosa sorprende sempre: la pessima qualità delle opere esposte nelle gallerie commerciali veneziane. Com’è possibile che, avendo la mostra internazionale più importante del mondo, il mercato locale sia così mediocre? Forse perché i potenziali acquirenti sono visitatori scesi dalle navi da crociera che pensano di portarsi via un Canaletto «moderno» e non vogliono capire che quell’opera è stata probabilmente prodotta in serie nelle botteghe di una qualche città cinese... E poi ci sono gli studi accademici sulla Biennale a Ca’ Foscari, l’università veneziana, dove le direttrici donne sono ignorate e si citano solo i nomi dei loro colleghi uomini...

Quando un membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali ha affermato che trasformare Venezia in una Disneyland culturale avrebbe potuto segnare il passaggio a uno stile di vita più felice e festaiolo, come cita Salvatore Settis nel suo libro Se Venezia muore, 2014, si ravviva la consapevolezza che alcuni politici più che una garanzia di salvezza possono essere una minaccia. Oggi come oggi, di reale a Venezia c’è ancora il male ai piedi quando si cammina per le sue calli; l’irritazione per i prezzi esorbitanti degli alloggi e dei ristoranti, che peraltro di solito sono al completo; gli enormi teloni pubblicitari che ne coprono i monumenti durante il restauro; l’umidità costante, la nebbia fitta d’inverno e il caldo soffocante d’estate; la folla e le code interminabili per entrare alle mostre... E i milioni spesi per il progetto Mose.

Ma a Venezia palpita anche il miracolo di angolio nascosto in cui un’altalena artigianale dondola per una creatura nata in città; la meraviglia delle madonne e delle maddalene nelle sue chiese; le elefantesse che guidavano i loro branchi dal padiglione centrale nella mostra di Cecilia Alemani, e la visione di artiste che ci hanno rivelato verità mistiche e politiche.  E ora, grazie allo sguardo e alla coscienza critica di una donna come Lesley Lokko, i nostri occhi si apriranno su quel continente che interroga il contesto antropologico che ci rende tutti uguali. Cominciamo dunque  subito a immaginare e a costruire il «Laboratorio del futuro».

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