Roma 1948: quando gli artisti finanziarono Israele

Quell’anno 70 autori, affiancati da antiquari e intellettuali, allestirono una mostra per metterne in vendita le opere, che invece furono donate al neonato Stato. Il Museo Ebraico ne ospita ora una ventina

«Composizione» (1947-48) di Carla Accardi, Tel Aviv Museum of Art. Cortesia del Tel Aviv Museum of Art
Francesca Romana Morelli |  | Roma

È un’assoluta novità, perché ripercorre una vicenda straordinaria di cui si era persa la memoria, la mostra «Roma 1948. Arte italiana verso Israele», curata da Davide Spagnoletto e da Giorgia Calò al Museo Ebraico di Roma dal 27 aprile al 10 ottobre, e promossa dalla Comunità Ebraica e dalla Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, rispettivamente presiedute da Ruth Dureghello e da Alessandra Di Castro, in collaborazione con il Tel Aviv Museum of Art (Israele), diretto da Tania Coen-Uzzielli.

Hanno inoltre contribuito il Ministero della Cultura italiano e l’Ambasciata d’Italia a Tel Aviv. Nel 1948 a Roma 70 artisti, mossi da una volontà di «solidarietà e umana simpatia verso il popolo d’Israele che combatte per la propria libera esistenza» (recita lo spartano pieghevole che funge da catalogo della mostra) e, in fondo, dalla necessità di liberarsi di un fardello etico e psicologico di un «passato» vissuto da una parte come un’ingiustizia subita, dall’altra come senso di colpa personale, si uniscono liberamente per organizzare una mostra nella Galleria d’Arte Antica di Palazzo Torlonia e metterne in vendita le opere, il cui ricavato «andrà a beneficio del fondo internazionale pro Stato d’Israele».

Per rafforzare l’iniziativa, gli antiquari (molti appartengono ad autorevoli famiglie di origine ebraica) offrono oggetti d’arte da sorteggiare tra gli acquirenti. La «Mostra d’arte pro Nuovo Stato d’Israele» apre il 15 giugno 1948, un mese dopo che l’Onu ha sancito la creazione dello Stato d’Israele (il 14 maggio 1948 David Ben-Gurion ha invece dichiarato la nascita della Nazione israeliana).

Emersa dal Ventennio e dalla Resistenza, l’Italia è invece un Paese da riscostruire, che versa in condizioni economiche e sociali disastrose e si regge su difficili equilibri politici. Questa spontanea iniziativa artistica si inserisce quindi in un contesto culturale complesso e conflittuale: in seguito a un esplicito «richiamo all’ordine» comunista, nel 1948 l’arte rompe ogni indugio tra Astrattismo e Realismo, tra «ibridismi» e compromessi neocubisti, e si attesta su fronti e posizioni programmatiche radicali, e qualcuno da lì a poco, come Afro, andrà a cercare il successo a New York.

Sempre nel 1948, la Biennale di Venezia, oltre a dipanare in modo quasi esemplare la matassa dell’arte moderna italiana e straniera incidendo sul dibattito estetico, allestisce, per la prima volta, una mostra di 16 artisti ebrei, dimostrando ancora una volta la volontà della cultura italiana di appoggiare la questione israeliana: «Fin dai primi del ’900 l’ideale sionista e l’effettiva determinazione del Paese si fondano sulla dicotomia tra cultura e politica, dichiara Giorgia Calò. Da un lato c’è la convinzione che per costituire uno Stato si debba prima di tutto creare le istituzioni culturali, si pensi alla Bezalel Academy of Arts (1906), al Teatro Nazionale Habima (1928), al Tel Aviv Museum of Art (1932) e all’Israel Philharmonic Orchestra (1936), dall’altro lato si lotta per la sua realizzazione».

Nel nutrito comitato promotore dell’esposizione romana del 1948 ci sono, tra gli altri, i giovani artisti Salvatore Scarpitta, Toti Scialoja, Aldo Natili, Renato Guttuso, che ha militato nella Resistenza, Corrado Cagli che, fuggito negli Stati Uniti, ha combattuto con l’esercito americano in Europa, e molti che hanno operato durante il fascismo, come Carlo Levi, che ha subito il confino, Giuseppe Capogrossi, Roberto Melli e Mario Mafai.

Al loro fianco sono gli intellettuali: da Sibilla Aleramo a Giulio Carlo Argan, da Alberto Moravia a Goffredo Petrassi, da Lionello Venturi a Ignazio Silone. «È interessante come, in un panorama sempre più frammentato, gli artisti accantonarono le crescenti polemiche per riportare tutto su un piano artistico e di solidarietà, spiega Spagnoletto. Esposero nature morte, paesaggi, ritratti e composizioni senza riferimenti alla recente attualità, ma che inquadravano le loro ricerche tra il 1946 e il 1948. Inoltre non esitarono a donare opere di grandi dimensioni per l’epoca».

Alla fine nessuna opera viene venduta, per cui l’intera mostra viene donata allo Stato israeliano. A imbattersi in questa storia, a seguito di ricerche di studio su un soggetto più vasto, è stato Davide Spagnoletto, che ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti reperiti tra l’Italia e Israele e soprattutto ha ritrovato le opere, conservate nel Tel Aviv Museum of Art.

Il museo ha prestato oltre una ventina di pezzi, tutti inediti, tra cui quelli di Afro (una composizione del 1948 dai toni vivaci, che annuncia la svolta informale), Antonio Sanfilippo, Carla Accardi (un’opera del 1947-48 in pieno clima astratto del gruppo Forma 1), Piero Sadun, Cagli, Capogrossi (un’elegante «Ballerina stanca» del 1946 che segna l’abbandono della stagione tonale), Pietro Consagra (una scultura in legno del 1947), Franco Gentilini, Guttuso, Levi (una natura morta del 1946), Melli e Scialoja. La mostra propone infine un omaggio a Renzo Avigdor Luisada, esponente della borghesia ebraica livornese, che nel 1939 si trasferì nella Palestina mandataria, diventando nel dopoguerra un «collante» tra l’Italia e Israele.

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