Quell’ossessiva tentazione del MiC di «fare cassa»

Negli ultimi mesi le parole del ministro Sangiuliano avevano fatto ben sperare, ma a gennaio è giunto l’Atto di indirizzo che indica le priorità politiche. E qui la montagna ha partorito il topolino

Gennaro Sangiuliano
Daniele Manacorda |

Qualche settimana fa avevamo salutato laicamente il ministro Sangiuliano senza preconcetti e chiusure ideologiche. Avevamo apprezzato il suo auspicio che la cultura potesse diventare anche «motore per la nostra economia» in attesa di un progetto politico, esposto in Parlamento nello scorso dicembre. Quelle linee programmatiche avevano spunti interessanti. Per brevità ricordo l’impegno a portare avanti il Pnrr («un dovere repubblicano») in omaggio alla continuità degli atti amministrativi; l’attenzione verso le attività di manutenzione ordinaria (un tema annoso), la cura dei depositi (dove giace la grande maggioranza dei beni culturali mobili di proprietà pubblica), il sostegno alle librerie...

Ricordo il richiamo alla condivisione di esperienze in contrasto con la cultura della cancellazione e anche un cenno a quella «oikofobia» che affligge l’Occidente e invita tutti a una riflessione; l’auspicio al compimento dei troppi piani paesaggistici regionali ancora mancanti e un cenno a un confronto costruttivo con il Ministero dell’Ambiente per il coordinamento tra tutela del paesaggio e nuovi impianti per energie rinnovabili. Ricordo infine l’apertura a un sistema misto pubblico-privato («per uscire dall’inerzia») nella gestione dei siti del patrimonio secondo il principio della sussidiarietà per incrementare il dinamismo sociale, nella convinzione che «l’industria dell’arte e della cultura in Italia mettono in moto una filiera produttiva e un numero di addetti ai lavori molto importante».

Quelle linee contenevano anche alcune preoccupanti prese di posizione circa gli ostacoli all’uso sociale (anche commerciale) delle immagini del patrimonio culturale pubblico («signori, chi utilizza una nostra immagine la deve pagare!») su cui abbiamo altre volte attirato l’attenzione dei nostri lettori. A gennaio è giunto infine l’Atto di indirizzo del ministro che indica le priorità politiche. E qui la montagna ha partorito il topolino, un topolino ossessionato dall’obiettivo di «fare cassa». Sul rapporto tra tutela paesaggistica e produzione di energia rinnovabile il documento resta un involucro vuoto, limitandosi ad auspicare un vaghissimo «punto di equilibrio».

La sinergia tra pubblico e privato per la fruizione del patrimonio culturale verrà genericamente «potenziata», sì che «si valuteranno forme di concessione d’uso a terzi», e tra le righe il privato sembra ben visto se disposto a svolgere il ruolo del bancomat. La nota dominante dell’Atto, sotto lo strano titolo di «Sviluppo e diffusione della cultura», è invece la priorità data all’«accrescimento della capacità degli istituti e luoghi della cultura di autofinanziarsi». Nulla di male in sé. Anzi. È il problema che, astrattamente parlando, possono avere i comparti dei trasporti pubblici, della sanità, della scuola, della difesa... ovviamente supportati in primis dalla fiscalità generale, oltre che da una gestione oculata che eviti sprechi.

Ma scendiamo nel concreto. L’Atto promette di rivedere le tariffe di ingresso nei musei e nei parchi statali. Perché no? Se evitiamo confusi approcci ideologici e rifuggiamo da aumenti lineari dei costi dei biglietti, basterebbe responsabilizzare i direttori degli istituti autonomi perché valutino gli aumenti possibili, anche in relazione al mercato, e le possibili gratuità (che a volte generano risparmi), se la finalità è la diffusione della cultura.

Assai curioso sembra l’indirizzo di concedere solo a titolo oneroso il prestito delle opere d’arte per mostre in Italia e all’estero. Esorto il ministro a pensarci bene: a quel punto saranno onerosi anche i prestiti a nostro favore (oggi vige un accordo di reciprocità). Per prassi i nostri partner già pagano i prestatori, come noto, attraverso il restauro delle opere prestate. L’ossessione maggiore sta nell’indicazione che «occorre proteggere (!?) il patrimonio rappresentato dalle immagini, anche digitali, del nostro patrimonio culturale, attraverso un’adeguata remuneratività», centralizzando le autorizzazioni e le concessioni a titolo gratuito sia degli spazi che delle immagini e perpetuando così la sciagurata confusione tra beni materiali e immateriali presente nel Codice Urbani, ricca di implicazioni etiche, giuridiche ed economiche. Appare ignorata la recente delibera (ottobre 2022) della Corte dei Conti, che autorevolmente ha criticato queste procedure «proprietarie» come «anacronistiche e largamente superate poiché, peraltro, palesemente antieconomiche» e ostili a «una visione del patrimonio culturale più democratica, inclusiva e orizzontale».

Al suo fianco il ministro Sangiuliano ha chiamato come capo di Gabinetto Francesco Gilioli e come capo dell’Ufficio Legislativo Antonio Leo Tarasco, rispettivamente vicepresidente e presidente di una «Società italiana per l’ingegneria culturale» che ha tra i suoi obiettivi dichiarati proprio il «riutilizzo dei dati dei beni culturali, ma a pagamento».

L’indirizzo è dunque quello di «fare cassa» con la mercificazione (qui è il caso di dirlo) del patrimonio culturale pubblico, mentre si impone al cittadino una tassa sull’ispirazione stessa che quel patrimonio può produrre nel libero arengo dell’industria creativa. Il tutto in contrasto con la Convenzione di Faro del 2005 (e dal 2020 legge dello Stato anche in Italia) e con la Direttiva europea sul diritto d’autore, che il passato Governo aveva recepito con un trucchetto da azzeccagarbugli di dubbio profilo costituzionale, che ne ha svuotato lo spirito liberale e liberatorio.

Libere foto in libera arte!
Insomma, bisogna che il ministro ci pensi bene prima di lucrare sulle concessioni di ciò che non appartiene allo Stato: le immagini sono beni immateriali, come i versi di Leopardi e le note di «Fratelli d’Italia»! Riflettere se è davvero il caso di mettere le mani nelle tasche degli italiani, e solo degli italiani, di quelli che della cultura intendono fare impresa e creare lavoro e ricchezza pulita. L’impedimento al libero riuso delle immagini del nostro patrimonio culturale non colpisce le agenzie di viaggio di Singapore o l’artigianato cinese o qualche operatore dell’America Latina, che non potranno essere mai raggiunti dai contenziosi che il Ministero della Cultura vorrà mettere in atto. Colpisce esclusivamente il Made in Italy ed è esattamente l’opposto di ciò di cui l’Italia ha bisogno oggi.

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