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Proclami imbecilli

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Flaminio Gualdoni

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Assatanati autoproclamatisi «tutori» si indignano per «la qualunque»

Una delle opere di Ontani dedicate al pantheon induista «Basta con queste immagini sessiste che danno il solito stereotipo della donna come oggetto del desiderio!». Dunque, il Cattelan impagina per Rimini, more suo, una serie di cartelloni pubblicitari intitolata «Saluti da Rimini», in cui sciorina il repertorio usuale di blande impertinenze visive postpop e di evocazioni di quel gusto pubblicitario rétro fatto, secondo le vecchie analisi di Roland Marchand, di «brilliance of imagery and intensity of focus», e subito se ne escono un po’ di donne engagées con il ditino alzato a fargli la morale.

Qualche settimana prima la Fondazione India/Europa di Zagarolo aveva deciso di chiudere una mostra di tableaux vivants fotografici di Ontani dedicati al pantheon induista perché le opere turbavano «la sensibilità dei visitatori indiani».

Niente di che, sarebbero ulteriori mediocri capitoli della saga infinita di arte e coglionerie censorie. Ma qui non sono in gioco iconografie provocatorie e perturbanti. È che da un po’ di tempo in qua la menata di ciò che la sintesi giornalistica chiama «politically correct» sta veramente esondando oltre i limiti del ridicolo definitivo.

In questi giorni nel mio piccolissimo mi son sentito rimproverare da una vicina di far propaganda filoislamica perché giro sotto la canicola con un berrettino di cotone che mi ha regalato un amico marocchino, e mi son reso conto che ormai, nel delirio neuronale che ci assedia, qualsiasi segno è equivocabile.

Tornando a Cattelan e a Ontani, dunque funziona così. Un artista fa una cosa, e subito c’è chi salta su a fargli la morale, come si diceva una volta, apprescindere. Il problema non è quali segni usa.

È che ogni aspetto dell’agibile umano è presidiato da assatanati che si autoproclamano tutori di qualcosa, e ai quali non pare vero di guadagnarsi il quarto d’ora warholiano indignandosi per la qualunque. In effetti, a metterla così si aprono intere praterie di possibilità di emanare proclami imbecilli. Ecco alcune modeste proposte, per citare quel vecchio genio, tutte prese rigorosamente dalle cronache dell’oggi.

Per esempio, non si può non elevare una viva e vibrante protesta nei confronti della mostra «I Belgi» al Macro, dal momento che gli artisti presenti non rispettano la proporzione tra popolazione fiamminga e vallona.

E poi, cos’è questa storia della mostra su Filippino Lippi a San Gimignano? Intanto, deve destar scandalo tra i cattolici duri e puri la scelta di celebrare uno che era figlio di un frate e di una monaca, e per altro verso la sua Annunciazione è un soggetto controverso dal punto di vista religioso, dal momento che, proprio come il presepe nelle scuole, esporla all’ammirazione lede i diritti di tutte le altre minoranze religiose e dei non credenti.

Quanto a «Brixia. Roma e le genti del Po» che si tiene a Brescia, è evidente il bieco intento politico della cosa, tipico del regime postcomunista che si ostina a imporre il centralismo romano all’eroico popolo padano.

E poi, perché all’Ambrosiana si espone il Codice Atlantico di Leonardo? Possibile che nessuno parli mai del Codice Pacifico? È vero che è una faccenda che regola la navigazione in quei mari e non ha neanche un disegnino, ma cinesi e orientali sfusi, che tra l’altro si comprano le nostre squadre di calcio, ne sarebbero gratificati e non si sentirebbero tagliati fuori.

Quanto alla mostra di Tamara de Lempicka a Torino, è palese che essa è una celebrazione della bisessualità nata da un’oscura manovra della confraternita Lgbt, tale da suscitare lo sdegno all’unisono degli organizzatori del Family Day, soprattutto per la concomitanza con l’ostensione della Sindone: alla quale peraltro un’associazione di produttori di detersivi avrebbe tentato invano di opporre che non è vero che esistono macchie indelebili.

Flaminio Gualdoni, 15 settembre 2015 | © Riproduzione riservata

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