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Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoliAdesso per gli artisti è più cool entrare in chiesa
In due delle più belle chiese della cristianità (lo so, suona un po’ enfatico, ma è la verità) troneggiano in queste settimane due opere d’arte contemporanea messe lì come in una mostra. Nel Duomo di Milano Tony Cragg ha collocato «Paradosso», una sculturona di quelle sue di adesso, attorta in volute ascendenti, in marmo. Alla Jesuitenkirche di Vienna Steinbrener/Dempf & Huber hanno collocato «To be in Limbo», una specie di monolite ovale di otto metri che galleggia a mezz’aria imponendosi a tutta l’architettura.
Vabbè, è da qualche anno che l’arte contemporanea, invadente come le acque della piena, si infila in tutti gli spazi disponibili, specie se già di per sé autorevoli. E come è naturale che sia, qualche volta gli interventi funzionano, e qualche volta no. Ma il dibattito che si è scatenato si è limitato al solito «visto da destra - visto da sinistra» di guareschiana memoria: gli accenti vanno dagli elogi verso una chiesa finalmente «moderna» (moderna? Che valore è?) e aperta alle istanze eccetera, pronunciati con tono accondiscendente da gente che si è appena fatta una seduta di yoga dentro a un museo, ai soliti starnazzamenti a base di sacrilegio, «questa non è arte» e litanie consimili.
Sin qui, nulla di nuovo. Il fenomeno tuttavia va diffondendosi con una certa rapidità, e un ragionamento lo merita. Dunque, mettiamo che un artista in carriera abbia esaurito tutte le possibilità espositive importanti ma ambisca a essere riverito da una platea più vasta rispetto al solito compound di quelli che sull’arte le sanno tutte. È intelligente, e sa benissimo che ormai anche il museo più autorevole non è abbastanza sexy: da quando non son più luoghi di omologazione condivisa di valori ma laboratori di proposta, cronaca dell’attuale, i musei ti danno solo un bollino qualità, che è poco.
I musei hanno perso carisma? Allora giochiamocela nei luoghi che sono in grado di trasferirti il loro. In fondo è la vecchia storia che la cornice è il gran ruffiano dell’opera. Solo che qui il gioco è collocare le proprie cose nella cornice di una reggia, di un castello, di un grande museo coi capolavori antichi. Vuoi mettere l’effetto che fa a uno dell’Arkansas o di Shenzhen sentirsi dire che Jeff Koons fa una mostra a Versailles? Solo che con le chiese sinora la faccenda era più ostica. Primo, perché fino a qualche anno fa farsela con il clero sembrava una faccenda da sfigati che fanno le madonnine stilizzate, e non era per niente cool.
E poi c’era la questione complicata dell’arte sacra, roba che i soliti statement non la potevano mica liquidare in quattro e quattr’otto. Per fortuna sono arrivati i prelati «moderni» che han capito che bisognava «aprirsi», e i loro zelanti esecutori che qualche volta si son messi a porsi problemi importanti, ma per lo più si son mostrati solo ansiosi di farsi benedire (!) dagli officianti del fighettismo artistico. Dunque, giù duri con gli artisti famosi a prescindere, che così non ti sbagli e i giornali ne parlano e dicono che la chiesa ora si è culturalmente evoluta (!!). È uno scambio: l’artista dà una patina modaiola alla chiesa, che restituisce il favore offrendo luoghi espositivi molto fotogenici e un certificato di qualità tostissimo. E poi, quando gli ricapita agli ambiziosetti d’una curia di far due chiacchiere con il direttore del grande museo, che tra l’altro di solito è vestito tutto di nero anche lui? Sai che frisson di piacere.
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