Perché il matrimonio tra tecnologia e arte si deve fare

Per Giorgio Ventre, ordinario della «Federico II» e tecnologo col cuore da umanista, la multidisciplinarità è la strada maestra per uno sviluppo nel quale creatività e nuove tecnologie giocano dalla stessa parte

Giorgio Ventre
Olga Scotto di Vettimo |

Figura poliedrica, tecnologo con il cuore da umanista, Giorgio Ventre, professore ordinario di Reti di Calcolatori, è attualmente Direttore del Dipartimento di Ingegneria elettrica e delle Tecnologie dell’informazione dell’Università degli Studi di Napoli «Federico II». Nell’ottobre 2017 è stato nominato Direttore scientifico della iOS Developer Academy, innovativa iniziativa di alta formazione e ricerca, sviluppata da «Federico II» in collaborazione con Apple nel quartiere di San Giovanni a Teduccio a Napoli, unendo le visioni futuristiche del digitale a un ambizioso programma di rigenerazione urbana. Un cursus honorum di eccellenza, che intreccia ricerca, didattica, impegno istituzionale, scientifico e sociale. Alcune passioni significative, tra cui la sua città e il Napoli, squadra del cuore, del quale è tifoso accanito.

Che cosa è l’Apple Developer Academy?
L’Academy nasce nel 2016 da un accordo tra Apple e Università degli Studi di Napoli «Federico II», favorito dal Governo italiano e dalla Regione Campania, per istituire un polo dove formare professionalità differenti dal classico profilo ipertecnologico di ingegneri informatici e programmatori, che, tra l’altro, già formo all’università. L’idea è di formare il developer, un professionista in grado di accompagnare istituzioni e aziende nella trasformazione digitale, attraverso la creazione di app. Una figura legata non solo all’aspetto tecnologico, che non sappia soltanto programmare, ma dotata di competenze trasversali. Il corso, che dura 9 mesi, ha una quota tecnologica pari al 60%; il 30% è destinato al design, con attenzione verso aspetti come l’usabilità, l’accessibilità, quella che oggi viene chiamata «user experience». Il restante 10% verte su temi legati al business del digital marketing. Ovviamente, questo trova riscontro nella composizione del corpo docente: buona parte sono tecnologi, naturalmente, ma abbiamo una presenza significativa di architetti e designer digitali.

Qual è il modello della didattica?
I docenti, che chiamiamo «mentor», sono selezionati con bandi internazionali, tra tecnologi, esperti di creazione d’impresa, business digitale, architetti, designer, e devono essere doppiamente bravi: non solo nel proprio campo specifico, ma anche nell’applicare una peculiare metodologia didattica, il Challenge Based Learning, un sistema di apprendimento basato sulla soluzione di problemi, di sfide. Una didattica molto esperienziale, dove non c’è teoria, ma soprattutto pratica e che punta a innescare meccanismi di forte coinvolgimento degli studenti. E proprio perché si sentano parte attiva nel processo formativo, la didattica prevede che i ragazzi propongano e sviluppino app di cui restano proprietari. Il corso è in inglese e, infatti, il 25-30% delle adesioni alla call internazionale viene da studenti non italiani.

Quali competenze sono richieste in ingresso?
Non selezioniamo solo ragazzi con un background digitale. Certo, sono la maggioranza, ma cerchiamo anche competenze eterogenee: storici dell’arte, architetti, designer. Questo arricchisce la multidisciplinarità dell’approccio che perseguiamo.

Qual è il rapporto tra l’Academy e il Museo e Real Bosco di Capodimonte?
Abbiamo un partenariato intenso perché presso il museo abbiamo attivato il Foundation programme, un corso esterno di introduzione all’Academy, della durata di 4 settimane, che prima della pandemia svolgevamo regolarmente. Questo corso di avvicinamento al mondo digitale e alla creazione di app non è rivolto a tecnologi. Inoltre, Capodimonte è anche sede degli hackathon di benvenuto, organizzati con l’assessorato all’Innovazione e ricerca della Regione Campania, occasioni in cui accogliamo i ragazzi appena iscritti e li mettiamo a competere con soluzioni originali alle sfide proposte dalle aziende e dalle istituzioni.

Ritiene che quello dell’Academy sia un modello replicabile anche in altri ambiti?
Abbiamo imparato che interconnettere competenze differenti è più divertente e aumenta il tasso di creatività. La differenza tra i ragazzi che escono dall’Academy e quelli con percorsi formativi più verticali è che questo approccio multidisciplinare dà ai nostri studenti una capacità di immaginazione e di immedesimazione nell’esigenza del cliente, che il classico nerd informatico specifico non sempre ha. Noi tecnologi siamo abituati a cercare soluzioni ai problemi interne alla tecnologia e poco ci preoccupiamo dell’immediata comprensione e accessibilità di quest’ultima. Il lavoro congiunto tra architetti, designer, psicologi, sociologi è fondamentale per far sì che la tecnologia non sia più vista come una barriera, ma come strumento di facilitazione della vita professionale, sociale ecc.

Come intende il rapporto arte-tecnologia digitale?
La ritengo un’accoppiata assolutamente naturale e di immenso potenziale. Il tema è evitare la banalizzazione. Quello che mi spaventa molto è la banalizzazione del digitale in termini, ad esempio, di digitalizzazione dell’archivio. Il rapporto tra artista e tecnologo sta nella capacità di sfruttare appieno le potenzialità dello strumento. Dobbiamo fare in modo che questi due mondi siano in contatto sempre più stretto.

Gli artisti si sono già rivolti all’Academy?
Solo alcuni, in un ambito particolare, quello dell’applicazione dell’NFT blockchain, per la fruizione dell’opera d’arte digitale. Ma secondo me esistono molti più margini di confronto. Penso, ad esempio, allo sviluppo di aspetti legati alla sensoristica e all’automazione. Quando visito musei e gallerie mi accorgo che le opere d’arte potrebbero essere un eccellente ambito di sperimentazione per queste tecnologie. Bisognerebbe avere il coraggio di aumentare la quota d’arte nei corsi di Ingegneria informatica e aumentare la quota di digitale in quelli legati all’arte. Credo che Napoli sia avvantaggiata in questo momento perché c’è molta attenzione e disponibilità su questo tema. D’altra parte, Napoli è una città culturalmente aperta alle sperimentazioni e questo mi rende abbastanza fiducioso.

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