Perché i quadri italiani a Londra sono diversi dai quadri italiani in Italia

La famosa intervista di Colalucci a «Il Giornale dell’Arte» mentre restaurava la Sistina

Gianluigi Colalucci
Giordano Viroli |  | Città del Vaticano

A tu per tu con Michelangelo. Ci riceve il responsabile dei restauri vaticani. Gianluigi Colalucci, l'uomo reso celebre in tutto il mondo dalla pulitura della Cappella Sistina, la gigantesca impresa finanziata dai giapponesi che sta rivelandoci un Michelangelo sconosciuto.

Professor Colalucci, cominciamo col parlare delle sue origini di restauratore.
Sono partito dall'Istituto Centrale del Restauro nel 1949. Ero fra i primi allievi di Brandi. Poco prima di me erano entrati i Mora, e già c'era Urbani. A quel tempo all'Istituto si faceva soprattutto il restauro della pittura. C'era un esame preliminare da sostenere, che veniva condotto da Brandi stesso per individuare una certa attitudine del candidato. Si restauravano anche bronzo e terrecotte, però non mi pare che vi fossero allievi in quei settori, dove lavoravano restauratori di Stato. E poi c'erano anche vari restauratori di Bergamo, di Siena, di Roma che non provenivano dall'Istituto del Restauro. Facevano restauro e insegnavano. Gli allievi erano affidati a loro. Si faceva una specie di rotazione e così si lavorava un po' su tutto.

Una volta diplomato, ha continuato a lavorare all’Istituto?
No, appena diplomato sono subito andato a lavorare in Sicilia, presso la Soprintendenza di Palermo, come restauratore indipendente. Restauratore libero, insomma. Per l'Istituto, a quel tempo, ho lavorato a Tolentino, ad Assisi e all'isola di Creta. L'Istituto mandava a lavorare allievi o restauratori già diplomati. Ma per lo più lavorai in Sicilia.

Che tipo di restauri vi condusse?
In Sicilia ho lavorato moltissimo sulle tele, molto sulle tavole, molto poco sugli affreschi.

E il passaggio al Vaticano, quando avvenne?
In Vaticano sono entrato nel '60, perché De Campos aveva bisogno di rinnovare il personale che nel frattempo stava andando in pensione. Deoclecio De Campos era il direttore delle pitture, a quel tempo si chiamava così. Era quello che oggi è Mancinelli, che è direttore per l'Arte Bizantina Medievale e Moderna. Allora, De Campos aveva bisogno di restauratori abbastanza giovani ma con un'esperienza già formata e si rivolse al professor Cagiano De Azevedo, l'allora direttore della Scuola dell'Istituto Centrale del Restauro (tuttora la Scuola ha un suo direttore, che è al disotto del direttore dell'Istituto), e professore di archeologia all'Università di Milano. De Campos si rivolse a lui, e lui mi segnalò. Dopo un anno mi hanno assunto. Da allora lavoro per il Vaticano, ma posso lavorare anche come restauratore privato. Naturalmente il lavoro più impegnativo resta questo. Quando sono entrato qui, nel '60, ho cominciato ad occuparmi delle tavole della Pinacoteca. Ero considerato restauratore di tavole per l'esperienza fatta nel passato, e ho continuato per molti anni a lavorare sulle tavole. Però qui la maggior parte delle pitture è su muro, e di conseguenza mi sono poi dedicato al restauro degli affreschi.

I rapporti con l'Istituto si sono mantenuti buoni?
Sono ottimi. Sono buon amico dei Mora e di Giovanni Urbani. Inoltre qui c'è un consulente per il restauro che è il professor Pasquale Rotondi, che è stato direttore dell'Istituto Centrale del Restauro dopo Brandi. I nostri rapporti con l'Istituto sono rimasti sempre molto stretti.

Diceva di aver lavorato molto sulle tavole. Che lavori facevate?
Un po' di tutto. Al tempo in cui si facevano i trasporti abbiamo fatto anche quelli. Ma non sono molto propenso, fino a che è possibile vorrei evitare i trasporti, così come gli stacchi di affreschi.

Tutti voi restauratori affermate di essere contrari a trasporti, stacchi e strappi, ma poi li eseguite. Non è per caso una scusa quella che accampate affermando un biasimo apparente per un'operazione che poi continuate ad eseguire?
In queste operazioni, paragonabili a interventi chirurgici su un corpo umano, occorre distinguere due momenti. Non credo che esistano chirurghi così sadici da voler operare a tutti i costi. E quindi bisogna fare di tutto per evitare l'operazione. Ma nel momento in cui si è arrivati alla conclusione che non la si può evitare, allora subentra l'altro momento, quello tecnico. A quel punto non si può essere recalcitranti: bisogna entrare nell'operazione completamente. A operazione conclusa, questa può anche soddisfare l'operatore come momento, come fatto tecnico. Ma come impostazione teorica direi di no.

Un trasporto ha in sé qualcosa di miracolistico, che forse gratifica chi lo esegue
Lei dice una cosa giusta. In passato i restauratori avevano come loro massimo momento quell'operazione miracolistica che era il trasporto di colore. Tanto è vero che la storia del restauro (ammesso che esista ma non esiste, una vera e propria storia del restauro) la si fa risalire ai grandi trasporti fatti in Francia ai tempi di Napoleone. Questa operazione misteriosa, fatta con il fuoco (nessuno la poteva vedere) risponde anche al gusto settecentesco, o al gusto dei primi dell'Ottocento. Nelle lettere del De Brosses si parla delle foderature: pare che a Roma ci fosse un foderatore, cioè uno che cambiava o metteva altre tele ai quadri, al quale questa tecnica era stata tramandata da un altro, che l'aveva appresa da un altro ancora, e via via tutta una serie di tramandi fino a che si arrivava a san Giuseppe. Cose di questo genere. L'importanza fondamentale dell'Istituto del Restauro in questo campo è stata quella di fare piazza pulita di tutto questo, e cioè di dire: non esistono più misteri, non esistono o non dovrebbero esistere più segreti. Noi abbiamo uno scambio continuo di informazioni, abbiamo pubblicazioni che girano in tutto il mondo, ci sono associazioni internazionali di restauratori. Lo scambio oggi è molto aperto. Ritengo che la qualità di un restauratore non stia in grandi messe in scena che fanno effetto sulla massa, ma in qualcosa di molto più sottile.

Nell'ultimo dopoguerra si sono eseguite molte operazioni di stacco di affreschi. Ricordiamo tutti il boom delle sinopie, che suscitavano grande interesse
È vero. Ma questo è dipeso dal fatto che ci sono stati affreschi bombardati. Una volta staccati questi affreschi per necessità, o per prevenire altri danni, o perché erano finiti a terra, si è cominciato a recuperare le sinopie. Questo gusto della sinopia è andato avanti così... ma la sinopia ha un interesse molto relativo. C'è sempre un problema di misure in queste cose. A volte si esagera verso l'uno o l'altro indirizzo. Quello delle sinopie certamente è un fatto interessante, ma non si può staccare un affresco per recuperare la sinopia. È assurdo.

Che restauri importanti ha condotto qui in Vaticano, prima del lavoro attuale?
Per cominciare, ho fatto il restauro di tutti gli affreschi di Castel San'Angelo. Sono convinto che un restauratore debba lavorare 8-10 ore al giorno, tutti i giorni, perché come molte professioni o mestieri, questo lavoro in particolare è fatto di esperienze. Bisogna vedere quante più cose possibili, e anche non in maniera settoriale, perché poi alla fine le une si legano alle altre, sono un po' come dei vasi comunicanti. Mi sono occupato degli affreschi di Castel Sant'Angelo, così come dei quadri, tavole e tele, dei soffitti lignei. Può sembrare abbastanza strano, ma mi sto occupando anche dell'angelo di bronzo, attualmente smontato a Castel Sant'Angelo. Ho fatto anche parecchi restauri alla Galleria Borghese: Caravaggio, Dosso, Andrea del Santo, Garofalo... Culture diverse. In questi ultimi anni sono stato molto spesso in America. Ho contatti con i musei americani. Non vi ho lavorato, però sono stato invitato a fare delle conferenze. Al Getty, per esempio. Per la Sistina ho fatto già una quindicina e più di conferenze con diapositive, sia in America che in Svezia. E anche in Italia, naturalmente. Questo mi accosta a molte persone. Ho fatto una conferenza a un congresso dei restauratori americani, l'A.I.C., e quindi ho avuto modo di vedere quello che fanno gli altri.In Inghilterra ho fatto un'esperienza un po' particolare: avevo restaurato alla Galleria Borghese delle tavolette del Bachiacca. Terminato il lavoro, sono partito per Londra. Due giorni dopo ero alla National Gallery, dove ho visto il resto di queste tavolette, molto diverse da quelle della Galleria Borghese che avevo restaurato. Erano diverse perché erano conservate in maniera diversa, erano state restaurate in maniera diversa. Mi sono chiesto il perché. Scambiando le idee anche con altri, ho capito che la ragione potrebbe essere questa: che il restauratore porta la propria cultura nel lavoro che fa. Per cui l'inglese che restaura il quadro italiano, a meno che non abbia una preparazione tutta particolare, tenderà sempre a interpretarlo secondo la propria chiave di lettura. E quindi tenderà a portarlo verso la sua area culturale, che è quella del Nord Europa. È la ragione, secondo me, per cui i quadri italiani che sono a Londra somigliano poco ai quadri italiani che sono in Italia. Si possono rovesciare i termini della questione; forse noi potremmo non essere adatti a capire la pittura fiamminga. E questo si può addirittura trasferire alle regioni italiane. Io sono nel Lazio dove c'è pittura romana. La pittura fiorentina è un'altra cosa, e quella veneta un'altra ancora. Di recente ho fatto il restauro del Tiziano di Padova, che sono affreschi della scuola del Santo, e mi sono trovato come si trova uno che deve imparare moltissime cose, che soprattutto deve capire moltissime cose. Un problema di velature e di patine…

Un problema di lettura complessiva, fatta anche di velature e di patine

Sentendo questi problemi dibattuti, noto che ognuno parla un linguaggio che sembra uguale per tutti. In realtà è un linguaggio proprio. Perché se io dico «velatura» intendo una cosa, se lo dice un mio collega ne intende un'altra. Se lui ha avuto un'esperienza diversa dalla mia, noi parliamo di due cose diverse. E qui sta la maggiore difficoltà: quella di intendersi sulle parole. Perché l'area culturale che ha prodotto queste opere, e, quindi anche le tecniche, è diversa da luogo a luogo. Sappiamo benissimo che le materie che compongono l'opera d'arte variano da un luogo all'altro, perché un tempo non c'erano scambi commerciali così rapidi come oggi. Questo può valere, per esempio, per i dipinti su tavola. Si può fare una mappa dei legni di tutt'Europa, perché a seconda di dove c'era l'albero, l'essenza legnosa più prodotta e più adatta, quella veniva usata. In Italia veniva usato il pioppo. Questo è già un elemento. Le tavole fiamminghe sono di rovere, e avevano un tipo di preparazione un po' diversa. La tecnica è quindi molto legata ai materiali, ed è legata a un effetto finale. Anche il cambio di illuminazione può alterare il modo di vedere l'opera d'arte. Noi abbiamo sempre troppa luce. La Sistina attualmente è illuminata con luci elettriche. Ma un tempo c'erano solo le finestre.

Veniamo alla Sistina. Da quanto tempo vi lavorate?
Dal 1980. Il programma prevede un lavoro fino al 1992. L'idea del lavoro è cominciata in una maniera molto semplice, molto morbida. Gli ultimi interventi sulla Sistina risalgono agli anni '30, fra il 1932 e il 1935. Poi non ve ne sono stati altri, ma abbiamo sempre fatto dei controlli sugli affreschi: li ho sempre fatti io, negli ultimi anni, mi interessava molto. Mettevamo i ponteggi sul Giudizio e si faceva la «spolveratura». È un'antica tradizione, questa. Dai controlli risultava una situazione veramente grave nello stato di conservazione, cioè di cattiva leggibilità. C'erano piccole cadute di colore dovute agli strappi prodotti da colle che sono state date sugli affreschi. Piccoli strappi. C'è in proposito un'ampia letteratura. Abbiamo i bollettini di Biagetti, gli articoli che lui scrisse al tempo dell'intervento sulla prima metà della volta, dove sono stati fatti solamente consolidamenti dell'intonaco. E niente pulitura. Questo problema era dunque un punto interrogativo, però noi sapevamo che era un problema notevole, di non facile soluzione. Poi il professor Pietrangeli, mi pare nel 1980, ordinò che si facesse il restauro dei due affreschi di Matteo da Lecce e di van den Broeck di fronte alla parete del Giudizio, che erano diventati molto scuri. A quel tempo ero già diventato capo restauratore qui e mi occupavo anche di quei lavori, pur non facendoli personalmente. Mi sono accorto che lo stato di conservazione di questi due affreschi, i restauri che abbiamo trovato, certe situazioni ricordavano molto da vicino la situazione del Giudizio. Già prima erano stati restaurati gli affreschi del Quattrocento, ma più su non si era andati.

È visibile dagli studiosi il restauro della Sistina?
E' un restauro cosiddetto "aperto". Chi vuole può venire a vedere e il suo parere è gradito. E non solo i pareri favorevoli.

Venendo alla situazione dell'affresco, quali sono i problemi che incontrate?

La nostra conclusione è questa: Michelangelo ha dipinto ad affresco, e si è dimostrato un grande affreschista, però gli affreschi hanno subito danni molto presto, hanno cominciato a macchiarsi con i sali, per infiltrazioni di acqua piovana. Da lì la necessità, sicuramente già dalla fine del '500, di fare interventi di restauro.Abbiamo individuato anche i pentimenti di Michelangelo sulla volta, praticamente abbiamo trovato tutto quello che c'era da trovare. È un affresco con colori liquidi e trasparenti, che non ammettevano interventi a secco. Questo per quanto riguarda le lunette.Della volta abbiamo un'esperienza ancora piccola perché siamo all'inizio, e abbiamo trovato già tutta una gamma di situazioni. Dei pentimenti, che Michelangelo ha corretto a secco. Piccole modifiche. Venivano fatte con colla e calce, o addirittura ad affresco. In pratica, Michelangelo tagliava una fetta di intonaco e la rifaceva ad affresco. Stiamo facendo una raccolta dei modi in cui sono stati fatti i vari restauri. Restauri di qualità diversa. Le ridipinture sono sopra i sali, la pittura originale non era stata danneggiata, ma nascosta ai sali. Gli strati di colla sono settecenteschi, ed erano ravvivanti.

Risultano interventi di aiuti?
Nelle lunette no, è tutto autografo. Si vede il gran mestiere che aveva acquistato nel dipingere ad affresco. Gli aiuti sembra che li abbia avuti all'inizio (nel Diluvio, nell'Ebbrezza di Noè ecc). E poi a un certo punto, scontento, li ha fatti fuori. Finora, in quello che abbiamo restaurato, c'è solo lui, e ciò che colpisce è la sua grande sapienza nell'affresco. Cosa questa che non sapeva nessuno.

Intervista pubblicata nel numero 27 del Giornale dell'Arte dell'ottobre 1985

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