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Pellegrin e il muro della vergogna

Chiara Coronelli

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In Messico lo chiamano il muro della vergogna. È la barriera costruita dal 1994 per fermare l’immigrazione clandestina dall’America Latina che corre lungo il confine meridionale degli Stati Uniti tra Tijuana e San Diego: chilometri di lamiera metallica alta tre metri, dotata di sensori collegati con la polizia, sorvegliata da elicotteri e mezzi armati.

Nel 2010 Paolo Pellegrin comincia un viaggio negli Stati Uniti partendo proprio da questa frontiera e ne riporta un lavoro intitolato «Another Country», trenta immagini ora esposte alla Leica Galerie (fino al  31 gennaio).

Membro dell’agenzia Magnum dal 2005 e vincitore di innumerevoli premi, Pellegrin è da sempre impegnato nelle aree devastate dai conflitti e dalle crisi umanitarie. In questa terra di nessuno fotografa un’umanità sfregiata da violenze quotidiane e abuso di potere, da violazione dei diritti e tensioni razziali, dal contrabbando di armi e dal commercio della droga.

Sempre sensibile e lucido, il suo sguardo arriva dentro la sofferenza, senza perdere di vista la responsabilità nei confronti del soggetto, che per lui consiste «nel creare un ponte emotivo con l’altro, nel dargli dignità senza ridurlo al dramma e basta».
Parte del reportage è dedicata a Guantanamo Bay e al carcere di massima sicurezza, che visita a più riprese tra 2006 e 2012. Dopo quel primo viaggio torna negli Stati Uniti ogni sei mesi, per «arrivare al nocciolo di qualcosa sull’America, il suo spirito e i suoi ideali, e i paradossi che contengono».

Chiara Coronelli, 08 gennaio 2016 | © Riproduzione riservata

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Pellegrin e il muro della vergogna | Chiara Coronelli

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