Padiglioni in città | Allegro caos e nuove partecipazioni

La Biennale esprime il suo spirito creativo e informale tra le calli veneziane, dove l’Uganda debutta con menzione speciale

Acaye Kerunen e Collin Sekajugo
Giusi Diana |  | Venezia

Aggiornato il 23 aprile

Alla Biennale con il più alto numero di artiste nella storia, le questioni di genere sono al centro del dibattito anche all’interno dei padiglioni nazionali, come nel caso di quello del Portogallo.

«Vampires in Space» di Pedro Neves Marqués, trasforma il secondo piano del neogotico Palazzo Franchetti con un’installazione narrativa che difficilmente si dimentica e mette insieme con grazia cinema e scrittura. Il video più lungo è di 35’, giusto il tempo di rimanere ammaliati dalle bellissime immagini di cinque vampiri che dentro l’intimità di una navicella guardano malinconici nel buio della notte, raccontandosi con delicatezza. Perché come recita il titolo di una opera-testo dello stesso Marqués esposta in mostra in forma di installazione, «nello spazio è sempre notte». La disforia di genere, i percorsi transgender e le esperienze queer trovano nella figura letteraria e cinematografica del vampiro e nell’immaginario auto-fantascientifico di Neves Marqués un’incantevole e per niente scontata chiave di lettura.

Sul fronte delle nuove presenze nazionali si segnalano due paesi africani (alto anche il numero di artiste provenienti dal continente africano nella mostra curata da Cecilia Alemani), il Camerun e l’Uganda. Quest’ultimo, grazie a scelte rigorose (solo due presenze ed entrambe ugandesi), esordisce con successo. Acaye Kerunen, artista e attivista, ha lavorato con un gruppo di artigiane realizzando delle installazioni, decostruendo e ricostruendo gli oggetti realizzati in fibre naturali della tradizione. I dipinti e i collage di Collin Sekajugo raccolgono materiali dai mercati, come sacchi di juta e sisal, e tessuti come il bark cloth, mentre i ritratti alterano l’identità di modelli prevalentemente bianchi.

Il Camerun, nel chiostro interno del Liceo artistico Michelangelo Guggenheim, presenta i lavori di otto artisti nazionali e non, come Francis Nathan Abiamba, Angele Etoundi Essamba e Umberto Mariani. L’atmosfera è «allegramente caotica», tra dipinti, foto e installazioni allestiti nell’ampio spazio verde, seppur la presenza di troppe opere allineate sotto il porticato non rende giustizia alla mostra.

Nel Sestriere di Dorsoduro, a pochi passi dai centri espositivi più importanti della zona, lo Spazio Arco ospita il Padiglione della Repubblica del Kazakhstan. Alla sua prima esperienza alla Biennale di Venezia, il paese dell’Asia centrale punta sul collettivo Orta formatosi nella popolosa città di Almaty nel 2015. Gli artisti che ne fan parte si ispirano all’eredità di Sergey Kalmykov, l’ignoto artista d’avanguardia russo morto tragicamente in un’unità psichiatrica della stessa città nel 1967.

In mostra confluiscono i risultati di sette anni di lavoro assieme, tra ricami, dipinti, video e arte digitale. Alexandra Morozova e Rustem Begenov, marito e moglie, esponenti di punta del collettivo, hanno riempito lo spazio con materiali di recupero: cartone, plastica, carta stagnola, nastro adesivo e colla. Hanno deciso di usare il loro «tempio» improvvisato per una serie di eventi che chiamano esperimenti spettacolari. La spontaneità e l’immediatezza di questo allestimento aggiunge quella leggerezza di cui l’arte dovrebbe farsi anche portatrice.


Con il Padiglione Rietveld affittato all’Estonia, i Paesi Bassi lasciano temporaneamente i Giardini per trasferirsi nella Chiesa sconsacrata della Misericordia, a Cannaregio. Qui in un ambiente immersivo con il pubblico sdraiato su comode sedute iper-colorate e morbide, viene presentata la video-installazione di Melanie Bonajo «When the body says yes»; «artista, regista, sexological bodyworker e insegnante sessuale somatica», come recita la biografia, la Bonajo si colloca tra gli artisti che con un taglio documentaristico affrontano temi sociali.

Il tema dei corpi non conformi, della body positivity e della connessione attraverso il tatto, tra i sensi quello più censurato a causa della Pandemia, vengono esplorati con approccio ludico e delicato, attraverso interviste e vere e proprie performance. La nudità gioiosa e liberatoria insieme all’estetica «glossy» di tutto il padiglione risulta una boccata di ossigeno tra l’uniformità un po’ ingessata dei Padiglioni nazionali.

Il Padiglione dell’Azerbaijan in piazza San Marco presenta la mostra «Born to Love», ma qui si parla di amore inteso in senso più spirituale. La scelta, seguendo l’esempio della mostra al Padiglione centrale è caduta su sette artiste azere che praticano linguaggi diversi, il loro numero non è casuale.

Il 7 in tutte le civiltà è considerato sacro ed è associato alla spiritualità e al misticismo, mentre «Le sette bellezze» è un poema del filosofo azero Nizami Ganjavi che collega idealmente le opere delle artiste. Suggestiva la videoinstallazione di «Infinity» che ben restituisce l’idea di armonia universale.

Tutt’altra atmosfera, volutamente algida, nel Padiglione della Bulgaria che si trova affacciato sul Canal Grande nello Spazio Ravà. Un solo artista a rappresentare il Paese, Michail Michailov, che nella mostra «There you are» espone disegni, una scultura appositamente concepita per lo spazio veneziano e una performance in cui coinvolge i visitatori. Dei cubi bianchi coperti di un materiale asettico, facilmente trasportabili, possono essere aperti e indossati, oppure portati in giro come se fossero delle borse di design. Una riflessione sulla temporalità dell’esistenza e sull’isolamento a cui siamo stati costretti.

BIENNALE DI VENEZIA

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