Padiglioni all’Arsenale | Tra nostalgie e consapevolezze

Crisi ambientale, effetti nefasti della colonizzazione, lotte di genere e rapporto con la tradizione e la tecnologia tra i temi più sentiti

Yuki Kihara, Padiglione della Nuova Zelanda
Laura Lombardi |  | Venezia

Continua la rassegna di alcuni padiglioni nazionali all’Arsenale, accomunati da riflessioni comuni inerenti la crisi ambientale, gli effetti nefasti della colonizzazione, la lotta condotta da soggetti non binari e il nostro rapporto con la tradizione artistica occidentale.

Gli Emirati Arabi propongono il progetto di Mohamed Ahmed Ibrahim a cura di Maya Allison: un’installazione con sculture, alcune più astratte, altre più biomorfe, a grandezza umana realizzate in papier maché su uno scheletro rigido: queste si trasformano col passare del tempo inglobando anche frammenti di terra foglie, caffè, tabacco. L’artista si ispira al paesaggio montagnoso attorno a Khor Fakkan, città portuale sulla costa orientale dell’Emirato di Sharjah e il titolo «Between Sunset and Surnise» allude agli effetti del sole che sorge dall’oceano e alle ombre che nel pomeriggio le montagne proiettano, evocando così il tema della transizione che è uno dei leit motiv dell’intera Biennale.

Nelle Corderie, dopo la mostra di Cecilia Alemani, troviamo la Nuova Zelanda, padiglione curato da Nathalie King, dove Yuki Kihara affronta da un punto di vista locale (quello dei fa’afafine, persone di sesso maschile che adottano modelli di comportamento tipicamente femminili, comunità cui l’artista samoana appartiene) problemi globali, riflettendo con umorismo, apparentemente leggero, sui pregiudizi riguardo al mondo queer e sulle sofferenze legate alla colonizzazione e alla crisi ambientale.

Le fotografie scattate nelle Sãmoa, con una troupe di attori locali, ricreano tableaux vivants, ispirati ai quadri di Paul Gauguin, sullo sfondo di un paesaggio reale che, pur nello stile di una brochure turistica, reca tutte le tracce dello tsunami del 2009. Ci sono poi talk show in cinque atti con un gruppo di fa’afafine che commentano i dipinti di Gauguin in modo arguto, ma anche filmati di concorsi di bellezza della comunità, sculture, opuscoli, materiali di archivio. Il titolo «Paradise camp» allude alla connotazione data al paradiso come una forma di «In-drag-eno». La stessa Kihara indossa in studio gli abiti di Gauguin riappropriandosi del proprio spazio all’interno della tradizione dell’arte.

L’Albania dedica invece il suo padiglione, curato da Adela Demetja, a Lumturi Blloshmi scomparsa nel 2020. Pur essendo sempre stata osteggiata come donna artista dal regime e derisa per la sua sordità, Blloshmi ha sperimentato con notevole inventiva materiali e tecniche giocando spesso sul concetto di trasformazione, declinato in diversi ambiti, dal ritratto dipinto alla fotografia (con la serie dei «Menu Kama Sutra») sino all’installazione e al video.

Nel padiglione Islanda, «Perpetua motion» curato da Mónica Bello, ci accoglie l’istallazione immersiva e multisensoriale di Sigurdur Gudjonsson: un grande flusso di energia, proiettato su un enorme schermo bipartito, derivato dall’ingrandimento di immagini di polvere di metallo, conferisce alla stanza un’inedita veste scultorea. Lo schermo diventa una finestra verso un altro spazio che ci fa riflettere su quanto accade in ciò che crediamo inerte.

Complesso e monumentale appare il padiglione Malta, «Diplomazia astuta»:
Arcangelo Sassolino e Giuseppe Schembri Bonacci, col compositore Brian Schembri, hanno lavorato, a partire dalla «Decollazione di San Giovanni Battista» di Caravaggio del 1608, sovrapponendo alla versione biblica commistioni temporali. La brutalità dell’esecuzione, insita nel dipinto caravaggesco, ci riporta a violenze ancora in atto che gli artisti ed il compositore traducono in forma fisica e metaforica.

Il dispositivo complesso messo in atto da Sassolino con il materiale emblematico del modernismo, l’acciaio, crea un’analogia fisica con il dipinto di Caravaggio (le sette vasche in acciaio piene d’acqua, su cui cadono dal soffitto le gocce di acciaio fuso, a illuminare per istanti il buio dello spazio, rimandano alla disposizione delle sette figure nella composizione del dipinto). L’installazione, trascendente ed immersiva, prosegue con la lastra incisa di Giuseppe Schembri e nei principi organizzativi musicali di Brian Schembri: la tragedia biblica trova eco negli eventi mondiali attuali rivelando anche il fallimento di un progetto umanista.

Il padiglione della Repubblica Popolare Cinese presenta «Meta Scape» curato da Zhang Zikang dove Liu Jiayu, Wang Yuyang, Xu Lei, Central Academy of Fine Arts (CAFA), Institute of Sci-Tech Arts+Tsinghua Laboratory of Brain and Intelligence (TLBI) Group Project, espongono una reinterpretazione del paesaggio in grandi forma astratte che si dipanano nello spazio del padiglione, per un’analisi del rapporto tra umanità, tecnologia e natura. I paesaggi sono creati infatti attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale e spingono a interrogarsi sul rapporto di coesistenza dell’umanità con la natura, sui nuovi criteri estetici di percezione del paesaggio nel quale siamo immersi e sul rapporto tra astrazione e realtà, spirito e materia.

La salvaguardia delle torbiere, la loro necessità di conservazione, è il tema del padiglione del Cile a cura di Camila Marambio, «Turba Tol Hol-Hol Tol», progetto del team multidisciplinare di creativi cileni, tra cui l’artista Ariel Bustamante, la storica dell’arte Carla Macchiavello, la regista Dominga Sotomayor, l’architetto Alfredo Thiermann, l’ecologa Bárbara Saavedra, la scrittrice Selk’nam Hema’ny Molina: Hol-Hol Tol nella lingua dei Selk’nam significa infatti «cuore delle torbiere».

BIENNALE DI VENEZIA

© Riproduzione riservata Particolare dell'allestimento del padiglione della Cina Still da video di Sigurdur Gudjonsson, Padiglione dell'Islanda
Altri articoli di Laura Lombardi