Padiglioni ai Giardini | Qui c’è un «vuoto» da cui ricominciare
Report Day 2 | Tra i temi dominanti dei Padiglioni nazionali ci sono i sogni, la rinascita e le rarefazioni






Il Padiglione della Russia è chiuso, le ragioni le conosciamo tutti. Quello Ceco e Slovacco anche, il cartello affisso all’ingresso dice che è «temporaneamente chiuso a causa della sua completa ricostruzione. Ci scusiamo per il disagio e speriamo di accogliervi presto alle prossime edizioni della Biennale di Venezia».
Quello della Spagna è vuoto. La gente lo attraversa scrutando pavimenti, pareti e soffitto in cerca di un indizio. Ma tutto ciò che si vede sono solo particolari architettonici spogli e bianchi. Si esce con un po’ di frustrazione e spaesamento. Molto probabilmenteì è quello che vuole l’artista. L’intervento di Ignasi Aballì (Barcellona, 1958) «Correcion», nasce infatti dall’idea di ruotare il padiglione su se stesso, disallineandolo di alcuni gradi rispetto alla sua planimetria originale. Per fare questo l’artista catalana «corregge» la struttura inserendo elementi in cartongesso che creano delle impercettibili incongruenze: vani porta e soffitti che non coincidono più. Sembra quasi un errore nel sistema, tipo «Matrix», un portale fra due universi paralleli dove le stesse storie hanno sviluppi e finali differenti. Un intervento che seguendo i canoni dell’architettura e dell’arte concettuale mira a scardinare lo spazio e la nostra capacità di percepirlo.
Qualcosa di simile accade anche nel Padiglione della Germania. Qui, però, Maria Eichhorn (1962) si rifà a una dimensione temporale di tipo lineare. L’artista bavarese scopre le tracce delle diverse fasi di costruzione del padiglione stesso. Nell’edificio, vuoto, si vedono sulle pareti tracce prive di intonaco con i mattoni a vista; sul pavimento una voragine, delimitata da una rete metallica a maglia larga, una specie di trincea con vecchie fondamenta a vista. Si tratta in entrambi i casi di testimonianze architettoniche delle fasi di lavoro che hanno contraddistinto la storia del Padiglione tedesco, costruito nel 1909 come Padiglione bavarese ampliato nel 1938 durante il regime nazista, che gli conferì l’aspetto attuale. Lo spostamento strutturale alla base dell’intervento di Maria Eichhorn, intitolato «Relocating structure», rimanda anche a questioni etiche ed esistenziali, legate al concetto di proprietà e organizzazione sociale.
Questo senso di rarefazione e dilatazione dello spazio assume una declinazione digitale e tecnologica nel Padiglione del Giappone, dove il collettivo Dumb Type (fondato nel 1984) ha collocato degli specchi rotanti in corrispondenza dei quattro punti cardinali nella sala per riflettere dei laser che proiettano sulle pareti dei testi tratti da un manuale di geografia del 1850. Queste scie luminose attraversano lo spazio insieme a fasci di suono che riportano domande universali. Il visitatore è immerso in uno spazio buio e vuoto che evoca il metaverso ma anche gli elementi alla base dell’arte e della comunicazione non verbale, ovvero, una linea e una superficie su cui tracciarla.
A ridare peso e consistenza al gesto dell’artista è la pratica scultorea di Simone Leigh, scultrice afroamericana cui è dedicata una personale nel padiglione degli Stati Uniti. Le sue monumentali sculture monocrome in bronzo e in ceramica, dalle linee semplici e delicate, ispirate all’arte, alla cultura e alla diaspora africana, sono l’occasione, per chi i soprusi del colonialismo li ha subiti, di riscrivere la propria storia. Ed è una storia piena di poesia e raffinatezza, senza vittimismo, senza pentimenti. È disarmante la semplice bellezza e autenticità della lavandaia di colore china in acqua a sciacquare un panno, sia esso il simbolo del sangue ingiustamente versato, o solo l’indumento di una quotidianità povera e faticosa ma non per questo infelice. Le sculture in mostra rappresentano corpi femminili, totem e conchiglie, alludono al tema della fertilità, della rinascita. L’acqua è un elemento ricorrente, contenuto nella vasca della prima opera, in cui la lavandaia immerge le mani e i piedi inserendosi nel flusso della natura, parte della lavorazione della ceramica, della manipolazione dell’argilla da parte dell’artista. Per ricoprire il tetto del padiglione Simone Leigh utilizza infine della paglia, rifacendosi alle abitazioni africani e alla storica esposizione universale di Parigi del 1931, duramente criticata da modernisti e Negritude.
Una revisione del colonialismo è anche alla base del Padiglione francese di Zineb Sedira, videoartista franco algerina autrice della personale «I sogni non hanno titolo». Il padiglione è un ambiente immersivo in cui sono ricostruiti frammenti di set cinematografici e oggetti legati alla vicenda biografica dell’artista. Zineb Sedira ha inoltre realizzato un video di 20 minuti, proiettato in una piccola sala cinematografica con vecchi sedili di legno, in cui mescola scene da lei girate con spezzoni di film da cui trae respirazione, da Scola a Visconti, a Orson Welles. Autobiografia, finzione e documentario si fondono per dare voce alla solidarietà internazionale, alle lotte per la liberazione e per il cambiamento che hanno fatto da sfondo all’indipendenza dell’Algeria, conquistata nel 1962. La musica è un sottofondo costante in tutto il padiglione, che invita lo spettatore «a danzare, danzare per resistere, danzare per rinascere, danzare per sognare», conclude l’artista.
E chissà nelle lotte future che ruolo avrà l’intelligenza artificiale, quella che fiorisce nei laboratori nascosti, negli angoli bui del metaverso. Un mondo in cui organismi naturali e artificiali convivono è immaginato da Yunchul Kim che per il Padiglione coreano ha realizzato un murales e varie grandi installazioni spiraliformi e robotiche. Sono meccanismi metallici muniti di schermi mobili, collegati, come l’essere umano, con il cielo e la terra, derivati da calcoli matematici, antichi rituali e forme naturali. Organismi che si muovono e «respirano», animati da software capaci di manipolare fluidi di diverse densità. Ogni installazione è collegata alle altre, in un grande organismo collettivo che convive pacificamente con l’uomo e altri esseri viventi.
Ciò che manca sono le emozioni legate ai movimenti, quelle che invece scaturiscono i piccoli gesti, apparentemente insignificanti, legati all’infanzia e al gioco, al centro dei video e dei piccoli dipinti di Francis Alys nel Padiglione del Belgio. Bambini, spesso di Paesi poveri, sono ripresi mentre saltano la corda, tirano la palla, schiacciano le mosche, corrono, in caldi pomeriggi assolati. La telecamera si concentra sulla ripetizione e sui particolari di quegli abili ed elementari movimenti di gioco, trasmettendo la sensazione di gioia, pace e spensieratezza che anche nei nostri ricordi è associata a quei movimenti. Ciò che ci rende umani, in fondo, è anche la capacità di sognare. Non a caso la parola sogni è nel titolo di questa Biennale.
BIENNALE DI VENEZIA
