Ora miart è romantica

145 gallerie da oltre 20 Paesi e un nuovo padiglione per la prima edizione post Covid del neodirettore Nicola Ricciardi

Nicola Ricciardi © Giorgio Perottino-Getty Images
Michela Moro |  | Milano

Miart è il punto fermo dell’arte milanese, centro attorno cui ruota la Milano Art Week. Il nuovo direttore, Nicola Ricciardi, intitola la 25ma edizione «Dismantling the silence», dall’omonima raccolta di versi del poeta statunitense Charles Simić. La poesia punteggia questa edizione, declinata nel denso programma di iniziative volte a valorizzare nuovi dialoghi tra passato e presente, storia e sperimentazione, come nella tradizione di Miart.

Dal 17 al 19 settembre sono a fieramilanocity_MiCo 145 gallerie da oltre venti Paesi, divise in cinque sezioni (Established Contemporary, Established Masters, Emergent, Decades, Generations), con opere di artisti moderni, contemporanei affermati e giovani emergenti, visibili anche su una piattaforma digitale.

Nicola Ricciardi, per il suo debutto ha scelto di includere la poesia. Milano le sembra pronta per recepire una posizione così «romantica»?
Milano ha avuto e continua ad avere un ruolo fondamentale nello sviluppo della poesia italiana. È stata fonte di ispirazione di alcuni dei capisaldi del Novecento, come La ragazza Carla di Elio Pagliarani, Le case della Vetra di Giovanni Raboni, ed è stata dimora e alveo creativo per alcuni dei più importanti poeti dal dopoguerra a oggi, da Vittorio Sereni a Luciano Erba, da Giovanni Giudici a Franco Fortini, da Alda Merini a Milo De Angelis, senza dimenticare due poeti di assoluto rilievo scomparsi purtroppo quest’anno: Franco Loi e Giancarlo Majorino.

Il passaggio della rassegna al piano superiore del padiglione della fiera segna un ulteriore cambiamento. È il ritorno all’assetto di anni fa: prima era su due piani, poi su uno solo, come mai questa scelta?
La scelta è stata dettata dall’invidiabile opportunità di lavorare in un padiglione di recentissima ristrutturazione, più moderno, funzionale, caratterizzante e in linea con l’ambizione internazionale di Miart. Il nuovo padiglione porta con sé significativi vantaggi: numerose vetrate, la possibilità di utilizzare una balconata esterna per prendere una boccata d’aria, una nuova e spaziosissima reception, e anche una vip lounge ampliata e completamente rinnovata, tutte novità mirate a rendere il più confortevole e tutelata possibile l’esperienza di espositori e visitatori.

Il suo percorso professionale è segnato da lavori in grandi spazi, ultima la direzione delle OGR a Torino. Andando indietro nel tempo abbiamo la Triennale, la Biennale di Venezia, quella di Berlino, solo per citarne alcuni. Si trova a suo agio nei grandi spazi? Come ha affrontato quello di Miart che dev’essere scandito in stand?
Per un curatore ogni spazio rappresenta un insieme di rischi e di opportunità e non penso che lavorare sulle grandi dimensioni sia necessariamente vantaggioso, anzi. Miart è un caso a parte: abbiamo deliberatamente scelto di lavorare su un padiglione più piccolo rispetto al recente passato perché l’obiettivo era mantenere alta la qualità, limitando il numero delle gallerie partecipanti. Questa decisione ha avuto un impatto sul bilancio della manifestazione, ma abbiamo voluto tutelare quanto costruito da de Bellis e Rabottini prima di me, mettendo in pratica il vecchio adagio di Mies van der Rohe per cui «less is more».

A quali contenuti ha dato la precedenza per lo spazio non dedicato alle gallerie?
In realtà quasi tutta la superficie calpestabile sarà a esclusivo uso e beneficio delle gallerie. La priorità era costruire una fiera che fosse un’opportunità concreta di rilancio per un settore che è stato messo seriamente in crisi dalla pandemia. Abbiamo effettuato un labor limae, riducendo al minimo tutto ciò che non fosse strettamente necessario e finalizzato a favorire l’interazione tra galleristi e collezionisti. Senza tuttavia per questo limitare l’esperienza del visitatore occasionale, che auspichiamo viva la fiera come una grande mostra collettiva, capace di raccogliere al proprio interno oltre 100 anni di storia dell’arte.

Come vede la fisicità degli spazi dopo tanto lavoro online? È cambiata la percezione?
Quando sono entrato in carica, nell’ottobre del 2020, la prima cosa che ho fatto è stata mandare a tutte le gallerie che avevano partecipato alle precedenti edizioni di Miart il mio numero di telefono, pregando loro di chiamarmi, così da costruire assieme le fondamenta della prossima edizione della fiera. In due mesi ho ricevuto oltre 200 telefonate e ne è emerso innanzitutto il desiderio quasi unanime di tornare a una fiera fisica, in presenza, e non più esclusivamente digitale. Le fiere online only sono state un esperimento e un palliativo quando non c’era alternativa, ma la strada verso la conversione digitale è ancora molto lunga.

Durante il suo precedente incarico ha avuto modo di misurarsi con molta musica e performance, ne vedremo anche a Milano in futuro?
Sicuramente sì, anche se è difficile stabilire quando. Per me resta una componente importante dell’esperienza artistica e troveremo il modo di integrare aspetti performativi già nelle prossime edizioni. Sono rimasto in ottimi e produttivi contatti con molti partner e collaboratori delle esperienze musicali maturate a Torino, come ad esempio i responsabili dell’avveniristico festival di musica avant pop Club To Club.

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