ON FUTURE | La visione del futuro di otto esperti d’eccezione

In attesa della 30ma edizione di Artissima, uno sguardo sulle nuove frontiere di geopolitica, energia, architettura, relazioni di cura, intelligenza artificiale, nutrizione e, naturalmente, arte

Antonio Calabrò
Jenny Dogliani |

Dal 3 al 5 novembre 2023 gli spazi dell’Oval Lingotto di Torino ospiteranno la trentesima edizione di Artissima. L’unica fiera in Italia esclusivamente dedicata all’arte contemporanea, diretta per il secondo anno da Luigi Fassi, fa il suo atteso ritorno con 181 gallerie italiane e internazionali, 4 sezioni consolidate (Main Section, New Entries, Monologue/Dialogue e Art Spaces & Editions) e 3 sezioni curate (Disegni, Present Future e Back to the Future) che ne rimarcano la rilevanza internazionale e confermano la forte proiezione verso il futuro. Artissima celebra l’importante anniversario capitalizzando anni di scoperta, ricerca e relazioni per guardare al futuro in modo innovativo e dinamico. Questa visione è la chiave narrativa di On Future, progetto che esplora settori quali geopolitica, energia, architettura, relazioni di cura, intelligenza artificiale, nutrizione e arte: otto esperti d’eccezione ci svelano la loro visione del futuro.

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ANTONIO CALABR
Ò
presidente di Museimpresa e direttore della Fondazione Pirelli

La sua storia professionale in tre tempi: passato, presente e futuro.
«Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra». Il giudizio di Tino Faussone, operaio metalmeccanico, montatore di gru, protagonista de «La chiave a stella» di Primo Levi, mi ha sempre accompagnato nel corso delle esperienze professionali e di vita. E so bene quanto grande sia stato il privilegio d’avere avuto l’opportunità (e la fortuna, perché no?) di cominciare a fare il giornalista, a ventun anni, nella redazione di un piccolo, grande, coraggioso e civile quotidiano di Palermo, «L’Ora», una vera e propria scuola di qualità e responsabilità della buona informazione: cronache puntuali e severe, inchieste documentate, un solido impegno antimafia e una costante attitudine al dialogo tra le diverse componenti della migliore politica e della migliore cultura siciliana e meridionale (Leonardo Sciascia, Renato Guttuso, Vincenzo Consolo, Enzo Sellerio erano tra i collaboratori costanti, Letizia Battaglia la fotografa di punta, Gioacchino Lanza Tomasi e Piero Violante i critici attenti al rapporto fra tradizione e avanguardia in musica). Le lezioni di quell’esperienza mi hanno accompagnato durante i miei trentacinque anni di giornalismo, a «Il Mondo», «la Repubblica», «Il Sole24Ore» e all’agenzia di stampa ApCom, con gli americani dell’Associated Press. Il buon giornalismo come attendibile rappresentazione della realtà e come impegno civile. Il presente, dal 2006 a oggi, in Pirelli (adesso come Senior Vice President per la cultura e direttore della Fondazione Pirelli, dopo avere guidato a lungo gli Affari Istituzionali) e poi negli incarichi nel mondo della rappresentanza d’impresa (presidente di Museimpresa e della Fondazione Assolombarda, vicepresidente dell’Unione Industriali di Torino, membro del Consiglio Generale di Confindustria dopo aver presieduto il Gruppo Cultura) è tutto giocato sulla valorizzazione del ruolo dell’impresa come attore sociale dello sviluppo sostenibile, tenendo insieme memoria e innovazione, competitività e solidarietà, produttività e inclusione sociale. La «fabbrica bella» e cioè ben progettata, sostenibile, sicura, con basso impatto ambientale (a cominciare dalle energie rinnovabili) e con una struttura produttiva «a misura d’uomo» è non solo la realtà dell’impegno contemporaneo, ma la strategia futura per la crescita europea dell’Italia.

Come sta cambiando il suo lavoro e quanto conta per lei immaginare il futuro?
Chiunque viva, con ruoli di responsabilità, nel mondo delle imprese, sa da tempo di dover fare i conti con due fenomeni travolgenti: la digitalizzazione dell’economia e le dimensioni via via cangianti della globalizzazione, anche nella stagione attuale in cui si scompongono e ricompongono, anche drammaticamente, gli equilibri geopolitici. Gli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale accelerano radicalmente i cambiamenti. La cultura d’impresa, come «cultura politecnica», fondata sulle sintesi originali tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, è la dimensione essenziale su cui fare leva per affrontare la nostra contraddittoria e controversa contemporaneità. Serve uno straordinario incremento della conoscenza, multidisciplinare e dialettica. E una radicale riforma della formazione, che intersechi tutti i processi professionali e produttivi, in una dimensione da life long learning, da continuo «imparare a imparare». Ci tocca costruire e scrivere una vera e propria «storia al futuro», con occhi attenti alle radici dell’impresa, molto legate ai territori d’origine e con intelligenza aperta ai mercati internazionali. Una tensione glocal, sintesi tra globale e locale. Cambiano infatti produzioni e prodotti, strutture di governance economiche e sociali, strumenti della ricerca e della trasformazione tecnologica, linguaggi del marketing e della comunicazione, nuovi materiali e relazioni di lavoro. La «neo-fabbrica digitale» è un luogo in cui manifattura e servizi, ricerca scientifica e formazione, logistica e sbocchi di mercato si ibridano in modi via via innovativi (un’indicazione essenziale per un grande Paese manifatturiero come l’Italia, leader internazionale di prodotti high tech). E servono dunque, già oggi e ancora di più negli anni che stanno arrivando, conoscenze e capacità di fare domande spregiudicate, «occhi nuovi per vedere» nel «viaggio di scoperta» che anche l’impresa sta facendo. Ecco il punto chiave: nello sviluppo dell’economista digitale e delle relazioni data driven, chi scrive gli algoritmi che guidano l’Intelligenza Artificiale? Gli ingegneri e i matematici, naturalmente. Ma anche i fisici e gli statistici, i filosofi e i sociologi per capire il senso delle scelte e le conseguenze sociali, i cyberscienziati, gli psicologi, gli economisti, i giuristi e, perché no?, i letterati e gli artisti. Saperi di sintesi. Tra consapevolezza storica e gusto dell’innovazione.

Quale artista la fa pensare al futuro?
«L’artista scopre ciò che non serve. Porta il nuovo», scriveva Karl Kraus, maestro d’intelligenza critica nel controverso inizio del Novecento, attento a insistere sui nessi tra cultura, libertà, responsabilità («quando il sole della cultura è basso, anche i nani hanno l’aspetto di giganti»). Ecco un’ennesima conferma della relazione costante tra libertà di ricerca e d’espressione, creatività e novità. Tra l’arte e il cambiamento. Tra la ricerca «inutile» di nuovi linguaggi e gli stimoli eccentrici alla trasformazione di relazioni, rappresentazioni, produzioni di idee, poteri. Stanno proprio nell’arte, sempre contemporanea al suo tempo e anzi anticipatrice, i più significativi segnali del cambiamento, anche se deboli e confusi. Ed è proprio per questo che le donne e gli uomini che hanno responsabilità d’indirizzo e gestione nella cultura d’impresa sono estremamente interessati a tutte le espressioni artistiche più originali. L’innovazione è il territorio intellettuale comune. Dove guardare, per indicare un artista essenziale? Il catalogo è quanto mai denso. Eppure, dovendo scegliere, credo sia opportuno, a mio parere, rileggere le pagine più creative di un funambolico Novecento, che ancora oggi ha lezioni da indicare. Pensare, per fare solo un paio di esempi, innanzitutto all’Angelus Novus dipinto da Paul Klee e reinterpretato da Walter Benjamin, con le ali bloccate da una tempesta e il volto rivolto a forza verso il passato e le sue macerie: la tempesta è il progresso, la forza del cambiamento di cui l’Angelus è simbolo deve lottare sino allo stremo per cercare un’affermazione, il cui esito resta incerto. Il cambiamento non è né semplice né lineare, il concetto di storia non induce a nessun facile ottimismo. E questa indicazione, che ancora oggi risuona nella nostra memoria, ha uno straordinario sapore d’attualità. Il secondo esempio è Marc Chagall, con le varie interpretazioni del «Violinista sul tetto», nel racconto suggestivo della relazione tra la corporeità della storia e la «leggera» incorporeità della musica, tra la forza delle radici (suonare il violino, appunto, era abitudine diffusa negli shtetl ebraici nell’est europeo) e la ricerca di una nuova condizione di libertà e creatività in territori meno esposti ai rischi del razzismo e dei pogrom. Responsabilità dell’artista, notava a ragione Chagall, è mettere in risalto «il lato invisibile delle cose, senza il quale la verità esterna non è completa». Vengono in mente le indicazioni sulla «leggerezza» di Italo Calvino, nelle «Lezioni americane». E leggerezza, appunto, è parola che vaga e che resta, sopra i tetti, nonostante le tempeste. E che ancora bene si radica nel profondo della nostra coscienza.

1. Luigi Fassi
2. Cristina Pozzi
3. Davide Oldani
4. Mario Cucinella
5.
Stefano Buono

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