Non c’è arte in un pianeta senza abitanti

Il patrimonio culturale, perduto e salvato, sarà il fondamento su cui la Nazione ucraina si rialzerà quando l’incubo sarà finito

La cattedrale di Santa Sofia a Kiev
Daniele Manacorda |

Nella seconda guerra mondiale l’Italia si prodigò eroicamente per salvare il salvabile del nostro patrimonio, riscattando anche in quel modo la vergogna di esser stata trascinata dalla dittatura fascista nella parte sbagliata della storia. E ci viene in mente che il Governo della Repubblica Sociale non si fece scrupolo di creare una serie di francobolli commemorativi degli edifici distrutti dai bombardamenti alleati mentre favoriva il passaggio dei camion che portavano a Hitler le opere d’arte rubate nei nostri musei.

Le guerre hanno sempre distrutto e rubato. Tra le immagini quotidiane di distruzioni e morte scorrono le forme dorate della Cattedrale di Santa Sofia, quelle pregiate dell’architettura barocca cosacca, quelle dell’antico Monastero delle Grotte di Kiev. Vediamo teatri sventrati e musei blindati; vediamo bunker, e pensiamo che il Museo di Storia Naturale della capitale ucraina conserva al suo interno i rifugi allestiti con ossa di mammut da chi abitava quelle regioni nel Paleolitico superiore.

E pensiamo ai tesori degli Sciti, tracce remote di un mondo antichissimo che univa i mari del Mediterraneo ai ghiacci dell’Artico. Pensiamo alle testimonianze artistiche dell’avanguardia del secolo scorso che sono sopravvissute alle cancellazioni staliniane e dentro di noi proviamo a rassicurarci che qualcuno se ne stia occupando, come certamente sta accadendo. Ci vengono in mente Sarajevo e l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria e le tragedie di quei popoli. Vediamo Palmira esplodere e pensiamo al volto umano di Khaled al-Asaad, il suo custode martire.

Ma l’angoscia per le distruzioni passate e presenti e l’ansia che ci fa temere quelle future sembrano quasi sciogliersi, fare un passo indietro davanti al pensiero delle immani sofferenze della popolazione civile e di chi combatte semplicemente per difendere il proprio Paese oppure costretto dalla menzogna di un tiranno dispotico. Che cos’è il patrimonio culturale di fronte a tutto ciò? È davvero al patrimonio che dobbiamo rivolgere il nostro pensiero? Non c’è un’altra scala di valori alla quale dobbiamo attenerci?

Una scala indubbiamente c’è. Quando in certe banali diatribe di casa nostra ci stupiamo di una sacralizzazione delle «cose» che sembra voler quasi prescindere dalle persone, un paradosso illuminante ci dice che se un giorno qualche follia cancellasse dal nostro pianeta ogni suo abitante, a chi mai servirebbe il suo immenso patrimonio storico, artistico e culturale? Nulla ha più senso di quel patrimonio senza le persone che lo percepiscono, lo creano, lo fanno vivere continuamente modificandolo.

La Convenzione di Faro è nata dal baratro dell’ultima guerra balcanica. È questa certezza che ci aiuta a ritrovare il bandolo perduto. E ci rassicura che il nesso inscindibile che lega il patrimonio alle popolazioni opera pur sempre in due sensi. Non c’è patrimonio senza esseri umani, non c’è comunità e umanità senza patrimonio.

Il patrimonio perduto (che sia il meno possibile!) e quello salvato saranno il fondamento su cui la Nazione ucraina si rialzerà quando l’incubo sarà finito. Non sarà solo un patrimonio identitario e quindi ambiguo: sarà un patrimonio di tutti, europeo e mondiale, nel quale tutti ci riconosceremo, al di là di lingue e di confini.

Guerra Russia-Ucraina 2022

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