Nella Wunderkammer di Bolla il sorriso della Vanitas

Un bestiario di carte, quadri alchemici, jolly e mandala: il demone del gioco crea meraviglie a Palazzo Reale

«Pappagalli» (2000-10) di Nicola Bolla allestiti nel Gabinetto Cinese di Palazzo Reale © Nicola Bolla. Cortesia di Photo&Contemporary. Foto Max Zarri
Franco Fanelli |  | Torino

Quando Nicola Bolla dice di essere «il più grande collezionista di sé stesso» allude alla sua compulsiva tendenza all’accumulazione, alla creazione di un museo come habitat personale. Fa venire in mente Joseph Cornell nei suoi vagabondaggi newyorkesi alla ricerca dei relitti che il naufragio di un continente, l’Europa, depone sulle spiagge d’Oltreoceano, così come lo descrive Charles Simic nelle struggenti pagine de Il cacciatore d’immagini (Adelphi). «Quando ho iniziato a fare scultura, aggiunge, mi sono posto il problema di creare degli oggetti che come collezionista non avrei mai potuto trovare. La grande capacità dell’artista è materializzare un pensiero».

Il mondo di Bolla (Saluzzo, 1963), figlio d’arte (il padre Piero era un eccellente ma appartato pittore) si schiude al pubblico con la complicità di Valerio Tazzetti, il titolare della galleria Photo & Co. di Torino e tramite un passepartout che ha la forma di un coccodrillo a grandezza naturale «modellato» attraverso la sapiente giustapposizione di carte da gioco e che ha fatto la sua apparizione, lo scorso novembre, nella fiera «Flashback».

Per Vittorio Sgarbi, in visita tra gli stand, è stato un colpo di fulmine da cui è nata in inverno una personale di Bolla al Mart di Rovereto. «El truco» di Bolla, per restare nel linguaggio del gioco delle carte caro a Jorge Luis Borges, in effetti è irresistibile: si tratta di un artista capace di ipnotizzare l’osservatore attraverso i suoi mandala di re, regine, fanti, assi e jolly, i materiali con i quali dà vita a un bestiario in mostra a Palazzo Reale a Torino fino al 16 ottobre in occasione della rassegna «Animali a corte» e che rivedremo, dal 22 giugno al 16 ottobre, nei locali dell’Artiglieria, sezione del complesso della Cavallerizza, nella stessa città.

Noto anche per le sue Vanitas (teschi, scheletri sormontati da tiare vescovili, ma anche kalashnikov e strumenti musicali composti da cristalli Swarovski), Bolla ama la carta: «Ho lavorato partendo dall’idea dei pop-up, delle carte costruite perché mi piaceva molto il mondo del teatro, della finzione. La mia prima opera con i cristalli, invece, è stata proprio un teschio in cui proponevo una Vanitas contemporanea che, in quanto tale, superava anche il cranio prodotto da Damien Hirst: nella mia scultura i diamanti non erano neanche reali, erano strass».

La Vanitas è una delle ossessioni dell’artista piemontese, «anche perché, come purtroppo i fatti di questi ultimi tempi stanno dimostrando, il valore della vita pare avere poco significato, soprattutto oggi». L’unicorno di Swarovski collocato in questo periodo nella Sala da Ballo di Palazzo Reale introduce invece a una passione non così slegata dal tema del «Tempus Fugit», cioè la Wunderkammer, il luogo dove, come scriveva Adalgisa Lugli, si compie «l’infanzia della scienza», dove Naturalia e Artificialia spesso s’intersecano.
«Orpheus dream» (2007) di Nicola Bolla allestito nella Sala da Ballo del Palazzo Reale © Nicola Bolla. Cortesia di Photo&Contemporary. Foto Max Zarri
«L’unicorno a Palazzo Reale, spiega, è assolutamente congruo al luogo e diventa una cosa straniante perché ricorda i lampadari, che pure abbondano in quella sede». E ancora: «Anni fa avevo fatto dei lampadari in cui tutte le perle colorate erano fatte di zucchero caramellato. A tutti gli effetti sembravano dei lampadari neoclassici». Viene in mente che Bolla è un concittadino di Aldo Mondino, l’artista che costruiva calembour scultorei come torri di torrone che diventavano «Torrioni».

Come Mondino, Bolla riesce a trattare argomenti drammatici, quale la caducità delle cose umane, attraverso l’ironia. Caduca, processuale e dunque transitoria è l’arte installativa che proprio a Torino si è sviluppata attraverso il Poverismo: anche gli ortaggi e i frutti in decomposizione sui tavoli a spirale di Merz, o la lattuga di Anselmo che si fa mangiare da due blocchi di pietra determinandone però il crollo hanno a che fare con il deus ex machina della Vanitas, ovvero Chronos, il Tempo. Il prestigiatore Bolla omaggia Mario Merz riprendendo l’elemento, il coccodrillo appunto, di una sua celebre opera virandolo però in una dimensione ludica che dà vita anche alle ali di un possibile Icaro, con le penne fatte ancora di carte da gioco o agli struzzi che nascondono la testa nei sacchi pieni di spazzatura.

Se il coccodrillo, rettile capace di collegare nel nostro immaginario il presente alla Preistoria dominata dai sauri, è presenza immancabile nel regno del confine tra arte e scienza, le Wunderkammer tramandate da incisioni antiche (il museo di Ferrante Imperato, quello di Francesco Calceolari, del seicentesco canonico milanese Manfredo Settala) e pende dal soffitto della Chiesa di Santa Maria delle Grazie presso Mantova, l’alchimia, preistoria della chimica, è la musa che ha ispirato i poveristi ma che nelle opere pittoriche di Bolla produce qualcosa che va oltre la pura trasmutazione materica. Pigmenti setacciati su supporti stesi in orizzontale assumono, a contatto con opportuni reagenti, forme inattese, capaci di cancellare anche il tracciato grafico che avrebbe dovuto sottendere a un’immagine. Termini come «stupore», «meraviglia», «sorpresa» ricorrono nel linguaggio verbale di Bolla.

Ma il gioco e i suoi strumenti, da Chardin a de Chirico, da Cornell ad Arienti, sono iconografie portatrici di un’altra musa, la malinconia: «È un elemento presente nel mio lavoro, conferma l’autore. Ma quello che più mi interessa è il silenzio, la discrezione, perché non ho mai fatto opere chiassose. Anche i mandala, basati sull’ossessione ripetitiva della stessa carta, diventano un modo per trovare una forma di spiritualità. Realizzo opere che in apparenza non hanno nulla da dire ma in realtà si portano dentro una forte valenza iconologica e anche simbolica, vanno viste con attenzione. A un primo sguardo il mio lavoro sembra basato sull’estetismo ma in realtà fa capo a riferimenti molto precisi, ad esempio all’iride umana (Bolla è anche medico oculista, Ndr), ai rosoni delle chiese gotiche. Ci sono dei rimandi ad archetipi come il cerchio che si ripete, il cerchio concentrico, la spirale. No, non ritengo di dire cose nuove; ma so farle vedere in maniera diversa, conclude Bolla. La superficialità del mondo contemporaneo che ci sommerge di immagini ci porta a non soffermarci più su nulla. Con le mie opere costringo il visitatore a un’osservazione prolungata».

È la condizione per cogliere piccole ma inquietanti idiosincrasie: carte da gioco che non potrebbero esistere, laddove i cuori anziché rossi sono neri. O comprendere, nella circolarità delle cose, che tout se tient: come un mandala d’ispirazione orientale può diventare il rosone di una cattedrale cattolica, così basta rovesciare una picca per tramutarla in cuore.

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