Nei negozi di R.I.P. Germain

Il giovane artista britannico ha riprodotto nell’Ica di Londra due esercizi commerciali: al piano terra un luogo di spaccio, in quello superiore i locali di un gioielliere frequentato dalle celebrità

Veduta di uno degli allestimenti di R.I.P. Germain all’Ica di Londra
Federico Florian |  | Londra

L’Ica (Institute of Contemporary Arts) di Londra fino al 14 maggio presenta una mostra personale del giovane artista britannico R.I.P. Germain. Noto per installazioni concettualmente dense e stratificate che esplorano la cultura e l’identità «black» nelle sue svariate manifestazioni, l’artista («trickster & guide», «un furfante e una guida», come si definisce lui stesso) ha trasformato lo spazio londinese in un doppio esercizio commerciale, ispirato al concetto di «baggy spaces» della scrittrice Helen Starr. Si tratta di spazi perlopiù illegali, esistenti in ambienti urbani, in grado di offrire servizi a una determinata clientela, pur restando invisibili ai più.

All’ingresso della mostra, ai visitatori è offerto un biglietto da visita con un codice numerico e un Qr code: le credenziali d’accesso a due ambienti dall’aspetto ambiguo ed equivoco. Al piano terra, ci ritroviamo all’interno di un «peephole», come è noto in gergo, il «baggy space» per antonomasia: un ambiente dalla parvenza di un negozio (un display di abiti sportivi identici e scatoloni accatastati che suggeriscono una consegna merci) che si rivela, in realtà, un luogo di spaccio. Inserendo il codice della business card, difatti, ci è possibile accedere a una stanza per la coltivazione intensiva di cannabis, inondata dai raggi viola di una schiera di luci al Led.

Al piano superiore, ci accoglie la grande A di A Jewellers (un reale gioielliere di Londra la cui clientela vanta rapper e calciatori): si tratta della Vip room del rivenditore di gioielli, accessibile nella vita reale soltanto ai clienti più prestigiosi, ma che R.I.P. Germain, riplasmandola in un contesto altro e apparentemente alieno (quello di una galleria d’arte), rende fruibile ai più. Una mostra illuminante, che offre uno sguardo critico e beffardo alle dinamiche del consumo e al processo di oggettificazione della stessa idea di «blackness».

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