Musei del futuro? È il «presente che conta»

Le opere hanno bisogno di cura ma anche di altro: della nostra interazione, proprio come le persone hanno bisogno di cure, ma anche dell’interazione tra loro, quella che abbiamo perso negli ultimi due anni

Una veduta della mostra «Designs for Different Futures» (2020-21), Walker Art Center, Minneapolis. Foto Peter VonDeLinde © Walker Art Center
Vincenzo de Bellis |

Abbiamo passato gli ultimi 24 mesi a parlare di opere senza poterle vedere e di musei senza poterli visitare, confinati nelle nostre vite passate su Zoom, Teams, Meet. Ma l’impossibilità di viaggiare negli spazi fisici e l’obbligo a restare lontani da tutto e da tutti ha fatto sorgere in me, e forse anche in molti di voi, la domanda: se c’è un futuro, come dovrebbero essere i musei del futuro?

In un certo senso quello che ci si è sempre aspettati dai musei è di conservare e mantenere inalterate le cose che collezionano e mostrano, con l’idea di preservarle per le persone che in futuro si aggireranno nelle stesse sale e potranno guardare gli stessi oggetti. Ma siamo sicuri che quelle persone vorranno proprio questo?

Anche io sono stato educato a proteggere gli oggetti e ho avuto quel «privilegio» un po’ sadico di essere tra coloro che, con indice puntato verso il visitatore troppo curioso della tecnica dell’opera, intima di non toccarla, in nome della cura e della conservazione di quell’oggetto.

In realtà ora, dopo circa 20 anni dalla mia prima esperienza lavorativa in un museo, mi spingo a dire che questi oggetti hanno bisogno certamente di cura ma hanno bisogno anche di altro: della nostra interazione, proprio come le persone hanno bisogno di cure, ma anche dell’interazione tra di loro, quella che abbiamo perso negli ultimi due anni.

Oggi, la cosa più sorprendente per me come curatore è questa accettazione, e se vogliamo anche la speranza, che gli oggetti si possano (debbano?) logorare. Lo so, sembra una bestemmia, ma pensiamo se rovesciassimo la prospettiva e il concetto di usura non fosse direttamente proporzionale al senso di perdita fisica di un oggetto, come facciamo oggi nei musei, quanto piuttosto all’accumulo di esperienze e interazioni tra cose, quelle che mostriamo, e persone.

E allora un giorno, dopo che per tanto tempo hai rifiutato il pensiero perché ritenuto una blasfemia, arrivi alla conclusione che quando gli oggetti non possono più sopportare un uso prolungato, potrebbero esistere procedure per segnare, piangere e onorare la fine di queste relazioni con le cose, esattamente come facciamo con la perdita delle persone. A quel punto gli oggetti del museo potrebbero essere sostituiti da qualcos’altro che possa raccontare un’altra storia, vivere una nuova vita.

D’altra parte, un museo come il mio, con oltre 13mila opere nei suoi depositi, può solo mostrare il 3-4% della sua collezione di volta in volta nei suoi spazi, e di certo le opere non sono state realizzate (e acquisite) per essere solo conservate e mai esposte.

Pensi che sia la cosa giusta, e che hai trovato la chiave del futuro ma poi rifletti su tutta la fatica che hanno fatto quelli prima di te, su tutto quello che hai studiato e ti sorge il dubbio: cosa dovrei dire alle persone del futuro? Non dovrebbe essere data loro la possibilità di stare con questi oggetti e godere della loro presenza come facciamo noi?

Certo che sì. Cosa buona e giusta, anzi sacrosanta. Ripieghi sulla tradizione e sulla consuetudine. Passa qualche ora e leggi il bollettino del giorno con la variante Omicron che ti fa ripiombare nel pensiero: e se non ci fosse futuro?

Allora ti convinci che è proprio questo che dovrebbero fare i musei del futuro: riconoscere che l’unico momento «possibile» è il presente. Perché anche se potessimo pianificare con certezza il futuro, la responsabilità più immediata è quella di coinvolgere e «nutrire» le persone del presente. Ovvero essere veramente «contemporanei».

L'autore è Curator and Associate Director of Programs, Visual Arts Walker Art Center, Minneapolis

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