Muna Mussie sulle tracce emiliane dell’Eritrea

Nella Project Room del MAMbo si racconta di quando nel capoluogo emiliano dal 1972 al 1991 si tennero congressi e festival eritrei molto frequentati dalle comunità diasporiche di varie parti del mondo

Muna Mussie
Stefano Luppi |  | Bologna

Perché una delle principali strade di Asmara, la capitale dell’Eritrea dal 2017 patrimonio Unesco per gli edifici Art déco, modernisti e razionalisti eretti durante l’occupazione coloniale italiana, è denominata «Bologna Street»?

I motivi che legano la città felsinea alla popolosa città africana riguardano il fatto che Bologna dal 1972 al 1991 si tennero congressi e festival eritrei molto frequentati dalle comunità diasporiche eritree di varie parti del mondo (dall’America ai Paesi arabi) e importanti incontri legati al sostegno alla lotta armata per l’indipendenza che dal 1961 lo stato ex «italiano» ingaggiò con l’Etiopia.

Così nel 1993 l’allora presidente dell’Eritrea Isaias Afewerki intitolò a Bologna 500 metri del centro cittadino in riconoscenza del ruolo sostenuto nella lotta d’indipendenza. Al MAMbo, fino al 10 settembre, questa vicenda storica e politica viene «tradotta» con il linguaggio dell’arte grazie alla mostra «Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna», allestita nella Project Room del museo, curata da Francesca Verga insieme all’Archive Ensemble, per tracciare un percorso e una mappatura dei congressi bolognesi.

Lo si fa grazie al lavoro dell’artista eritrea Muna Mussie (1978), di stanza a Bologna, che attraverso la sua pratica artistica analizza e mette in connessione con la sua memoria personale i materiali documentari tra cui molte immagini e video di Giorgio Lolli, rintracciati in archivi come quelli del Comune, della biblioteca Amílcar Cabral, dell’Archivio nazionale del film di famiglia, di «il Resto del Carlino» e molti altri ancora.

Per questo dialogo Mussie utilizza sue opere di precedenti progetti e altre realizzate appositamente, per esempio quelle ispirate ad antiche danze tradizionali africane che hanno al centro la figura dell’uroboro, l’iconico serpente che si morde o inghiotte la propria coda dando vita a un cerchio senza inizio e senza fine.
Questa figura assurge in mostra a metafora dell’eterno ritorno, un ciclo che comprende al proprio interno la fine e un nuovo inizio: da citare. Tra tutte, l’opera «Uroboro», un ricamo su riproduzione di pelle di serpente. Tra i lavori esposti anche «Nezela» del 2021, un intervento che richiama titoli di vari enti ricamati con tessuti in garza e filo di cotone verde; e poi ancora, i nastri adesivi «Sole (l’alba di una pace o il tramonto di una guerra)» del 2023, le otto serigrafie su carta «Metallica» e «Popcorn/fiore», scultura in 3d con rifiniture in peltro che domina il centro della sala.

Una decina le opere in mostra, sufficienti a definire la pratica di Muna Mussie, che si nutre del gesto, della visione e della parola per richiamarte l’attenzione sulla memoria, sull’oblio e sulla storia del suo popolo, evocato anche attraverso i materiali utilizzati.

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