Muluneh: oltre all’impatto estetico c’è di più

Una personale alla galleria Efie di Dubai omaggia l’artista visionaria presentando anche un’opera inedita

«Burden of the Day» (2018), di Aïda Muluneh. Cortesia dell’artista e di Efie Gallery Dubai
Rica Cerbarano |  | Dubai

La fotografa etiope Aïda Muluneh è nota per i suoi potenti ritratti di donne in contesti surreali e immaginifici, caratterizzati da colori intensi, volti dipinti e abiti appariscenti. La forza del suo lavoro però non risiede solamente nell’impatto estetico delle immagini che realizza: le sue opere infatti toccano temi urgenti come i diritti umani, l’ambiente, i conflitti e la salute nel mondo. La fotografia per lei agisce come un vero e proprio strumento di cambiamento sociale perché può avvicinare un ampio pubblico a queste tematiche; nel suo caso, questo avviene utilizzando un linguaggio visivo d’impatto che richiama l’attenzione in maniera istintiva e molto emozionale.

Muluneh ha studiato cinema, radio e televisione presso la Howard University di Washington e si è poi specializzata nel genere fotogiornalistico, da cui si è successivamente allontanata a favore di un approccio più creativo e autoriale, per cui oggi è riconosciuta internazionalmente: le sue immagini, dalla composizione impeccabile e la palette ipnotica (composta per lo più da colori primari, che fanno riferimento alle pitture murali delle chiese etiopi), interrogano lo sguardo straniero sulle donne africane, influenzato spesso inconsapevolmente dalla prospettiva coloniale di cui è imbevuto il pensiero occidentale, e sollevano importanti questioni sul ruolo che la fotografia ha nel plasmare le percezioni culturali.

Oltre alla pratica artistica, Muluneh porta avanti anche attività di curatela ed educazione, ed è fondatrice dell’Addis Foto Fest di Addi Abeba, con cui sviluppa iniziative che promuovono i talenti artistici dell’Africa e del Sud del mondo attraverso partnership con istituzioni internazionali.

Fino al 24 febbraio la Efie Gallery, galleria d’arte contemporanea con sede a Dubai specializzata in artisti di origine africana, presenta una mostra dell’artista dal titolo «The Art of Advocacy», in cui vengono presentati alcuni dei suoi lavori più emblematici (tra cui la serie «The Road of Glory», 2020, commissionata dal Premio Nobel per la Pace), insieme a un’opera inedita con cui viene testato un nuovo processo che mette insieme pittura acrilica e fotografia. Abbiamo intervistato l’artista per sapere di più del suo lavoro.

Può dirmi come è strutturata la mostra?
Il lavoro che presento alla Efie Gallery riunisce vari progetti commissionati che ho realizzato in passato e affrontano temi come la scarsità d’acqua, la salute e l’ambiente, problematiche che purtroppo continuano ad esistere. Spero che il mio lavoro stimoli una conversazione a riguardo, sollevi domande e spinga gli spettatori a immaginare un’estetica diversa quando si parla delle sfide che l’Africa deve affrontare. Per esempio, sono esposte le opere di «The Road of Glory» (2020), una serie commissionata per la Mostra del Premio Nobel per la Pace, che esaminano come il cibo e la fame siano usati come armi in guerra e come i progressi delle società nel corso della storia siano stati segnati da distruzione e sofferenza sistematica; «Water Life» (2018) è invece una serie commissionata da WaterAid e include opere che affrontano il problema dell’accesso all’acqua nelle regioni rurali e il suo impatto sulla liberazione delle donne, sulla salute, sui servizi igienici e sull’istruzione. Ho scelto di includere anche le fotografie del progetto «The Crimson Echo» (2021), commissionato da The End Fund, con cui viene evidenziato l’impatto delle malattie tropicali trascurate sull’equità di genere, sulla salute mentale, sulla mobilità e sull’accesso alle risorse.

In quest’occasione presenta anche un nuovo lavoro. Di che cosa si tratta?
Il mio nuovo lavoro, intitolato «Walls of Silence» (2022), è un’opera a tecnica mista in cui ho esplorato la manipolazione della fotografia vera e propria, spingendo al massimo i limiti di ciò che può essere definito fotografia. Incorpora fotografia, incisione e pittura a mano, combinando tecniche analogiche e digitali.
«Walls of Silence» (2022), di Aida Muluneh. Cortesia dell’artista e di Efie Gallery, Dubai
Come si sviluppa il suo processo creativo?
Spesso si pensa che le mie siano opere pittoriche, ma sono invece intrinsecamente fotografiche. Tendo a iniziare con uno schizzo e poi a costruire l’immagine che ho in mente, collaborando con diversi artisti in Etiopia e Costa d’Avorio per gli sfondi dipinti che compaiono nelle mie fotografie. La mia formazione è cinematografica, quindi ogni volta è come se stessi creando una scena.

Pensa che il suo particolare approccio estetico possa aiutare le persone a entrare più facilmente in contatto con le sue opere e con i temi che tratta?
Il mio obiettivo è sempre stato quello di reimmaginare l’Africa celebrando le diverse storie che esistono all’interno del continente e comunicando le sfide, le vittorie e la resilienza delle diverse comunità, perché spesso la visione occidentale dell’Africa sia molto limitata. Oggi, ci sono molti creatori di immagini locali che stanno mostrando al mondo che ci sono altre storie oltre lo stereotipo dominante. Io sono una di queste tante voci. Il mio obiettivo è cercare di coinvolgere il pubblico per sollevare domande e provocare curiosità, in modo da rimodellare la percezione dell’Africa. Credo che più diversità c’è in questo senso, più le persone saranno in grado di capire. Voglio che chiunque veda il mio lavoro lo ricordi, che rimanga impresso, indipendentemente dalla classe sociale, dalla nazionalità o dal livello di istruzione, ed è per questo che le mie opere hanno un’estetica molto audace e riconoscibile. Ovviamente all’interno di ogni immagine ci sono simboli che hanno un significato e devono essere codificati, ma per me è importante che l’opera raggiunga le persone in modo istintivo e immediato, che provochi una sensazione. Trovo che il mondo dell’arte sia spesso troppo elitario, mentre dovrebbe parlare prima di tutto alla gente comune.

Secondo lei, i social media hanno avuto qualche tipo di impatto nel diffondere le molteplicità di cui è fatto il continente africano?
Certamente. I social media sono stati un ottimo strumento per gli artisti più talentuosi di tutta l’Africa per entrare in contatto con diversi tipi di pubblico, dai curatori ai media. Hanno anche permesso a istituzioni e gallerie di scoprire artisti emergenti e sconosciuti. Tutto questo ha avuto un impatto positivo sulla diffusione e sulla presentazione dei diversi punti di vista del continente.

Lei ha iniziato come fotoreporter, per poi passare alla fotografia artistica. Il suo lavoro prenderà nuove direzioni in futuro? O pensa di aver trovato la sua forma di espressione definitiva?
Secondo me, ogni artista dovrebbe sempre spingersi a sperimentare. È un processo di continuo apprendimento e io sono una persona molto curiosa! Ma come dico a miei studenti, bisogna prima imparare le regole per poterle infrangere, ed è per questo che ancora oggi insegno fotogiornalismo, nonostante non sia più il genere che pratico. Il fotogiornalismo è la base che ispira il mio lavoro artistico, ma guardando al futuro, so che voglio tornare al cinema e so che quella sarà la mia ultima espressione artistica. Quello che vedete ora è solo l'inizio, ho ancora molte cose da scoprire e da sperimentare, molti obiettivi da raggiungere. È solo una questione di tempo.

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