Mantegna potente innovatore

La mostra riaperta a Palazzo Madama raccontata dalla curatrice

«Una Sibilla e un profeta» (1495 ca) di Andrea Mantegna (particolare), Cincinnati, Cincinnati Art Museum. © Bequest of Mary M. Emery/Bridgeman Images
Sandrina Bandera |

Torino. Palazzo Madama riapre il 28 maggio con la mostra «Andrea Mantegna. Rivivere l’antico, costruire il moderno», che è stata prorogata fino al 20 luglio. Curata da Sandrina Bandera, Howard Burns con Vincenzo Farinella, affiancati da un comitato scientifico internazionale, l’esposizione, ricca di un centinaio di opere dei maggiori protagonisti del Rinascimento, con importanti prestiti, è accompagnata da un catalogo edito da Marsilio, e affiancata da un progetto multimediale: una proiezione immersiva che rievoca alcuni cicli pittorici fondamentali ma inamovibili (la Cappella Ovetari di Padova, la Camera Picta di Mantova e i Trionfi della Hampton Court Royal Collection). Ospitiamo un testo della curatrice.

La dimensione di potente innovazione derivata dalla conoscenza dell’antichità, filo conduttore della mostra, appare evidente già nella prima ampia sezione, dedicata alla formazione di Mantegna a Padova e ai contatti che ebbe a Ferrara con Lionello d’Este (Andrea Di Lorenzo, Neville Rowley-Mattia Vinco e Cecilia Cavalca).

La cultura artistica d’avanguardia della città dei Carraresi è illustrata da alcune opere evocative della vitalità del quinto-sesto decennio: Paolo Uccello, autore negli anni ’40, a Padova, di grandi monocromi apprezzati da Mantegna (come racconta Vasari), Iacopo Bellini, Squarcione, i docenti dell’ateneo, simbolicamente rappresentati da un busto del Victoria and Albert di Leone de Lazara (che fu anche committente di Squarcione) seduto dietro a un leggio, secondo uno schema, un vero status symbol, che lo stesso Mantegna utilizza più volte in questi anni.

Sorprendentemente è presente anche Pollaiolo, la cui precoce incisione con la «Danza degli uomini nudi» è documentata entro il 1465 nella bottega dello Squarcione. Ma in questi anni il vero riferimento di Mantegna fu Donatello, attivo a Padova con un’articolata bottega per l’esecuzione dell’altare del santo e del monumento equestre al Gattamelata. Da lui Andrea iniziò ad apprezzare l’effetto lucente e vivo del bronzo, capace di rappresentare le tensioni interiori, e l’intrinseca possibilità di esprimere i valori dei filosofi antichi, quali la fermezza, la saggezza o la determinazione.

Le opere di Donatello e bottega prestati dal Bode Museum e dal Musée Jacquemart-André, l’impressionante protome equina da Capodimonte e il calco quattrocentesco della testa del Gattamelata entrano in un dialogo serrato con le opere di Mantegna. In questa sala spiccano, grandiosi, due affreschi staccati, uno dal portale centrale della Basilica del Santo e l’altro dalla Cappella Ovetari. Separati tra loro di pochi anni (1452 e ’54 ca), mettono in luce i progressi significativi e l’arricchimento del bagaglio formativo dell’artista.

Da pittore capace di destreggiarsi nella prospettiva albertiana, abile nei dettagli prospettici, egli si trasforma in architetto capace di costruire gli spazi all’interno dei quali le figure si muovono e in abile regista, che sa fermare la macchina da presa al momento di massima tensione.

Anche nelle opere più minute di devozione privata come la «Madonna col Bambino tra i santi Girolamo e Lodovico di Tolosa» dello Jacquemart-André, cromaticamente ancora influenzata dal cognato Giovanni Bellini, Mantegna presenta una spazialità nuova e una decorazione all’antica, possibile solo attraverso la conoscenza di Donatello.

La sezione seguente, dedicata ai primi anni mantovani, è da immaginare nel contesto della Camera Picta. Qui, ricco di una forza cromatica ancora veneziana, come mostra la lucentezza della corazza, ma inserito in una spazialità ormai prossima all’architettura illusionistica della Camera Picta, è esposto il «San Giorgio» delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Mancante dalle rassegne espositive dal 1992, potrà ora essere confrontato e studiato per risolvere le incertezze che gravano sulla sua datazione.

La prima attività mantovana del Mantegna parallela alla Camera Picta è la ritrattistica (Sandrina Bandera) che egli declina con alcune opere rivoluzionarie filtrate attraverso i busti antichi, come il «Ritratto del cardinal Trevisan» della Gemälde Galerie di Berlino e il «Ritratto maschile» (Carlo de’ Medici?) degli Uffizi: la loro potenza fu determinante per molti artisti, come mostrano i confronti con Giovanni Bellini e Antonello da Messina (presente il «Ritratto di uomo» di Palazzo Madama).

Anche alcuni profili del Mantegna di questi anni contribuirono a radicare il modello derivato dalla medaglistica nelle corti almeno fino alla fine degli anni ’80, come appare dal doppio ritratto di Ercole de’ Roberti di collezione privata, magistralmente attribuito da Roberto Longhi (1934). Impressionante è l’accostamento tra questi busti dipinti e i busti scultorei, o creati in bronzo, tra cui quello dorato di Marco Aurelio inedito in Italia della collezione del principe Liechtenstein, o derivati da restauri interpretativi di teste antiche di Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico, artista presentato da Filippo Trevisani e Claudia Kryza-Gersch. La rievocazione dei valori di fermezza e saggezza del busto classico diventa la metafora attraverso la quale la corte gonzaghesca si rappresenta.

La sezione dedicata ai «Trionfi» espone, creando confronti molto esplicativi, i diversi volti dell’antichità, augustea o dionisiaca, a cui Mantegna si ispirò, come indica Vincenzo Farinella in catalogo. Lo studio di sarcofagi, di vestigia, di busti e la lettura delle fonti letterarie culminò nell’esecuzione dei «Trionfi», struggente rievocazione del passato costituita da impressionanti tele a cui Mantegna affidò la sua idea quasi crepuscolare del passato.

Le nove tele oggi a Hampton Court sono evocate in mostra attraverso disegni e incisioni di Mantegna e bottega e copie rubensiane. Emergono qui la «Madonna delle cave» degli Uffizi, eseguita durante il soggiorno a Roma (1498-90) e un classicheggiante monocromo da Cincinnati, ambedue di levatura pittorica e intellettuale.

Strettamente connessa è la sezione dedicata al collezionismo di piccoli oggetti, riecheggiante il primo camerino di Isabella Gonzaga a forma di grotta. Accanto a rari bronzetti mantegneschi e dell’Antico vi sono esposte preziose pietre dure intagliate archeologiche già proprietà di Lorenzo il Magnifico, che fu in varie occasioni in stretto rapporto col Mantegna, e del cardinal Francesco Gonzaga. Nel segreto dello studiolo alcuni libri antichi richiamano la passione per la letteratura e la poesia che caratterizzò la modernissima Isabella.

Basti citare Il Libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione che inserisce Mantegna, come ricorda in catalogo Lina Bolzoni, in un canone di pittori, insieme a Giorgione, Michelangelo, Leonardo e Raffaello, testimoniante la pluralità degli stili «a riprova della necessità di seguire - nella scrittura letteraria - la varietà degli ingegni».

La ricostruzione della corte centrale della casa che Mantegna progettò per sé è forse l’idea allestitiva più sorprendente della mostra, realizzata da un suggerimento di Howard Burns secondo la grande tradizione dell’analisi storica comparata degli Annales. Le opere qui esposte presentano il tema dell’architettura intesa, come metodo di conoscenza e teorizzazione (al primo posto Leon Battista Alberti), come studio dell’antichità per sviluppare nuovi progetti, allargandosi anche alla decorazione dipinta, peculiare della cultura mantovana influenzata da Mantegna.

L’affiancamento di un famoso disegno rappresentante la «Flagellazione» (attribuito anche a Giovanni Bellini) degli Uffizi e di una terracotta padovana di Donatello (l’altare Forzori) del Victoria and Albert esemplifica il ruolo primario dello studio dell’architettura antica.

Segue un’importante sezione dedicata alle invenzioni che Mantegna elaborò, comprendendo l’importanza del copyright, e tradusse in incisione e in dipinti. Alle sette incisioni tradizionalmente attribuite alla mano del Mantegna (David Ekserdjian) è affiancata la «Resurrezione» dell’Accademia Carrara, recentemente attribuita a Mantegna, forse in connessione, così come alcune incisioni, con la decorazione della cappella del Castello di San Giorgio.

Seguendo il tema dell’utilizzo di modelli all’interno della bottega, sono presentati alcuni dipinti di devozione privata caratterizzati da nuovi modelli classici: evidente è il tema del Bambin Gesù quasi apollineo della «Madonna dei cherubini» di Brera e della «Madonna e santi» della Galleria Sabauda che appartengono circa allo stesso periodo. Isolato dal contesto festoso si distingue il volto scabro dell’«Ecce Homo» del museo Jacquemart-André, degli ultimi anni, che riflette il senso di inquietudine dell’anziano artista sotto il peso dei cambiamenti generazionali.

Le commoventi tele con la «Sacra Famiglia» e il «Battesimo di Cristo», per quanto rovinate, provenienti dalla cappella che Mantegna ha voluto costruire per sé (Mauro Mussolin) quasi a immagine del suo prestigio (fu nominato nel 1469 conte palatino dal Federico III d’Asburgo), dove i temi tradizionali di pietas cristiana e di intimità sono rappresentati con inedita libertà, indicano la ricchezza, a 75 anni, della creatività dell’artista.

La forza della sua eredità è presentata (David Ekserdjian) con pochi ma toccanti esempi, indicativi di un tributo che scavalca il limite della tradizione classica: Correggio, il suo più importante seguace, Marcantonio Raimondi e Rembrandt, collezionista e ammiratore dell’arte grafica del Mantegna.

Omaggio al Mantegna, la mostra è anche una rappresentazione metaforica del successo e dell’intelligenza del mecenatismo ininterrotto dei Gonzaga, come scrive Molly Bourne. Le lettere di pugno del Mantegna, presenti numerose, studiate da Alessandro Aresti dal punto di vista filologico, sono toccanti elementi di un autoritratto di parole (Lina Bolzoni), nelle quali possiamo vedere la varie sfaccettature dell’uomo, anche con le sue debolezze.

Nell’ultima, due mesi prima di morire, parla del busto della sua «cara Faustina» (presente in mostra), vendendolo commosso a Isabella, come del simbolo dell’antico che diventa vita.

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