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Mai senza bayt

Mai senza bayt

Francesca Romana Miorelli

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In arabo «bayt» significa sia «casa» sia «famiglia»: «Nel Medio Oriente la bayt è sacra. Gli imperi cadono. Le nazioni crollano. I confini possono essere cancellati o spostati. La casa, vale a dire la struttura fisica o l’idea di famiglia è invece l’identità che non sbiadisce», asserisce il giornalista libanese Anthony Shadid, due volte premio Pulitzer, i cui scritti hanno ispirato all’artista e film-maker Mario Rizzi (1962) una trilogia filmica, «Bayt» appunto, sulla primavera araba, finanziata dalla Sharjah Art Foundation.

Il primo episodio, «Al Intithar» è al centro di una personale curata da Cristiana Perrella allo Studio Stefania Miscetti fino al 31 gennaio. Il film è  girato nel campo profughi siriano di Zaatari nel deserto giordano, a sette chilometri dal confine con la Siria, dove Rizzi ha vissuto per nove settimane nel 2012, quando vi erano rifugiate da 35mila a 45mila persone: una città fatta di tende e di roulotte scuole, ospedali e commerci.

«Il primo episodio si focalizza su Ekhlas Alhlwani, una vedova di Homs, e attraverso di lei si segue la vita dei suoi tre figli e del campo, spiega Rizzi. Sono le donne nel campo a concentrarsi sui bisogni reali. Anche il secondo film, “Kauther “(2014) è incentrato su una donna. È costruito come un monologo di Kauther Ayari, la prima donna tunisina che ha osato parlare apertamente contro il dittatore Ben Ali, diventata il detonatore della rivolta del 2010». Rizzi ha trascorso quindici anni nei Paesi arabi, dopo esperienze di volontariato nei campi rifugiati dalla guerra di Bosnia.

 

Francesca Romana Miorelli, 08 gennaio 2016 | © Riproduzione riservata

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