Ma l’artista è un disertore

La guerra in Ucraina mette a nudo un nuovo atteggiamento degli artisti di fronte a disastri di questo genere. Ci riferiamo a quella che potrebbe essere definita diserzione intellettuale

Un particolare di «Last Supper» (1999) di Adi Ness
Franco Fanelli |

Nel numero dello scorso febbraio questo giornale ha pubblicato in «Vernissage» un servizio dedicato a Joseph Sywenkyj, il fotografo che ci ha mostrato i corpi mutilati dei combattenti nel Donbass, dove la guerra tra Russia e Ucraina è in corso dal 2014. Quel servizio riproponeva una questione purtroppo di eterna attualità. Se coraggiosi fotoreporter riscattano il ruolo delle immagini in un’epoca in cui sono assai più numerose quelle pessime o semplicemente inutili, che cosa fanno gli artisti in tempo di guerra?

La storia tramanda diverse possibilità. Urs Graf, fine incisore tedesco, divideva il suo tempo tra la sgorbia dello xilografo e l’alabarda del lanzichenecco; Benvenuto Cellini si diffonde, nella celebre autobiografia, sulle sue doti balistiche a difesa di Castel Sant’Angelo durante il Sacco di Roma del 1527. Nel XVII secolo un altro incisore, Jacques Callot, raffigurò le miserie della Guerra dei Trent’anni. Lo stesso fece Goya quando le truppe napoleoniche invasero la sua Spagna. Picasso riprese dal suo connazionale il tema dei «fusilamientos» per denunciare, nel 1951, i massacri della guerra in Corea 14 anni dopo «Guernica».

Il più inquietante tra gli artisti citati ci sembra Callot. Con la stessa eleganza grafica impiegata nella narrazione di feste e balletti in maschera, questo maestro del taglio dolce descrisse supplizi, stupri, assassini, impiccagioni. «La pendaison», la più celebre delle 18 tavole dalla suite «Les Misères et les Malheurs de la Guerre», ha la grazia di un arabesco, di un capolettera finemente intagliato. Aggraziati e teatrali come i personaggi dei balli di Sfessania, le soldataglie degli eserciti europei del ’600 nelle incisioni di Callot compiono atti nefandi.

Il grande incisore di Nancy non sapeva che involontariamente anticipava ciò che negli ultimi decenni è stato ampiamente utilizzato dagli artisti, dai fotografi e da altri creatori di immagini, cioè l’estetizzazione del dolore, della violenza, della miseria, della morte.

Il d’après leonardesco dell’artista israeliano Adi Nes, che ha raffigurato un’Ultima Cena i cui commensali sono soldati, è soltanto la più didascalica e meno ipocrita in questa tipologia, diventata un vero e proprio genere. Peggiore di lui è il patinato, melenso e photoshoppato fotografo Steve McCurry. Kader Attia, che all’edizione del 2012 di documenta a Kassel espose le fotografia dei volti deturpati dei feriti di guerra del 1914-18 accostandole alle maschere etnologiche africane, è un esempio ancora più calzante dei desolanti (e cinici) limiti dai quali l’arte che vuol parlare di guerra non riesce proprio a liberarsi.
Un particolare di «La pendaison» (1633), tavola della serie «Les Misères et les Malheurs de la Guerre» di Jacques Callot
La guerra in Ucraina ora mette a nudo un terzo atteggiamento degli artisti di fronte a disastri di questo genere. Ci riferiamo a quella che potrebbe essere definita diserzione intellettuale.

Una pandemia e una guerra dagli sviluppi tanto imprevedibili quanto potenzialmente spaventosi inducono gli artisti a cercare soluzioni o antidoti poetici, visionari o utopici: il «Terzo Paradiso» di Pistoletto e la «quinta dimensione» di Tosatti fanno parte di questa tendenza, così come il frequente riferimento a mondi paralleli, onirici, fiabeschi o surreali in questa Biennale en rose.

Ma la Biennale è una mostra come le altre, governata da meccanismi, mode e quindi interessi economici che sovrastano l’idea stessa di arte. La debolezza formale, teorica e poetica dell’arte contemporanea è ormai endemica e diciamo che abbiamo imparato a conviverci, proprio come dovremo imparare a fare con il Covid-19.

Il problema è un altro. E riguarda la desolante latitanza degli artisti (o almeno della maggior parte di essi) dalla vita reale. Una diserzione cui, va detto, quelli italiani aderiscono in gran numero. Avete mai sentito un artista intervenire con cognizione di causa sulla politica economica nazionale o mondiale? Chiedere la parola in una delle infinite occasioni di confronto offerte dai media su temi che riguardano, in concreto, le persone cosiddette comuni?

C’è di più. La questione Ucraina pone gli artisti, e non solo loro, in una posizione che detestano: bisogna scegliere da che parte stare. Ma soprattutto come stare dalla parte che si è scelta. Tutti sappiamo, ma in pochi osiamo dirlo, che probabilmente l’unico mezzo efficace per contenere la guerra è armare gli ucraini (cosa che del resto già avviene). La guerra pone tutti noi in una dimensione estrema, quasi inimmaginabile, così come estreme e inimmaginabili possono essere le armi con la quale combatterla. L’estremo e l’inimmaginabile dovrebbero essere zone dello spirito ben note agli artisti, ma questi ancora una volta brillano per il loro silenzio.
«The Repair from occident to extra-occidental cultures» (2012) di Kader Attia, esposta a documenta 13 © Pete Woodhead
Tra poco sarà il turno di documenta a Kassel, città rasa al suolo con particolare accanimento dai bombardamenti degli alleati nella seconda guerra mondiale e, nel 1955, eletta a sede di una delle principali mostre d’arte contemporanea dal suo fondatore, Arnold Bode. Nata con cromosomi politici, istituita sulla base della fiducia nel potenziale beneficamente eversivo dell’arte, documenta è rimasta fondamentalmente coerente con il suo primo mandato.

Lo comprova, fra l’altro, la direzione affidata nel 2012 a Carolyn Christov-Bakargiev e nel 2002 a Okwui Enwezor, due curatori particolarmente in linea con la connessione arte-politica. L’edizione di Enwezor fu marcatamente orientata in questa direzione. Quando gli chiedemmo che cosa avevano a che fare con l’arte tutti quei documentari e quei video che stentavamo a riconoscere come «artistici» e che narravano di guerre, disagi e politica, il curatore ci rispose che ormai il sistema dell’arte era così diffuso, conosciuto e frequentato che anche le mostre d’arte (se non l’arte stessa) andavano considerati come canali di comunicazione a beneficio della conoscenza.

Lo disse in anticipo sui tempi, quando il sistema dell’arte non era ancora popolare come lo è oggi e quando la nomina di un curatore nigeriano non era un atto dovuto a una moda. Forse prevedeva che le mostre e il sistema dell’arte si sarebbero sempre più diffusi sino a costituire un potentissimo network nel quale gli artisti, la cui specie era del resto in via di estinzione, si sarebbero tramutati in comunicatori o illustratori. Il sospetto, a questo punto, è insistente. Se gli «artisti» tacciono di fronte alla guerra e non partecipano alla vita reale e si limitano a illustrarla, è perché la loro specie si è davvero estinta.

Guerra Russia-Ucraina 2022

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