Ma domani? Prima utopia: il sostegno alla lettura

Riflessioni e propositi sui virus del nostro tempo

Jean-Etienne Liotard, «Giovane donna che legge», 1748-52. Firenze, Galleria degli Uffizi
Paolo Verri |

Ottimisti o pessimisti? Apocalittici o integrati? Il mondo della cultura umanistica (quello legato alla fruizione da parte del pubblico, ovvero musei e spettacoli dal vivo) si interroga su quando finirà la sciagura del Coronavirus che impedisce ogni attività, mentre il mondo della scienza e della tecnologia combatte con ogni mezzo l’epidemia. Che legame c’è e ci sarà tra i due mondi? Il post 2020 vedrà un legame più stretto e più proficuo fra le due culture oppure la divaricazione, come suggerisce il giovane (bravissimo) filosofo italiano Federico Campagna in Technic and Magic. The Reconstruction of Reality (Bloomsbury, 2018), sarà ancora più profonda e produrrà macerie della civiltà industriale e basi per una nuova società ancora ignota?

Dopo un inizio alquanto burrascoso, quando molti di noi minimizzavano il possibile impatto sulla vita quotidiana e quindi sull’offerta di consumo culturale a essa collegato, la situazione si è presto drammaticamente chiarita. Ogni attività andava fermata. Le filiere economiche cultura, spettacolo e turismo sono state azzerate. Qualcuno ha sperato di poter andare nei musei come al cinema in maniera razionata, ridotta, con distanze definite. Ma così non è stato: a differenza del «cibo per il corpo», il «cibo per la mente» non ha più potuto essere consumato.

I negozi fisici sono stati chiusi, aperti solo quelli virtuali. Librerie e biblioteche chiuse, serrande abbassate su teatri, cinema, musei. Tutta la conoscenza di colpo è diventata solo digitale; rafforzando una tendenza in atto e provocando un salto in avanti in un futuro che stava già per essere palese ma in cui nessuno voleva ancora veramente «entrare», stile Harry Potter. Alla fine abbiamo invece capito gli incubi tecnocratici di Orwell e di Zamjatin e la paura della fine della stirpe di Morselli e di Cassola.

Yuval Harari nel suo Homo Deus: Breve storia del futuro (Bompiani, 2018) ci aveva avvertito che la sfida più grande che l’uomo contemporaneo è disposto a combattere non è quella per la pace, ma per l’immortalità. Leggendo su «Time» l’ultimo intervento di uno dei più lucidi e ascoltati guru contemporanei, non possiamo non cadere nella tentazione di elencare che cosa potremmo fare di buono dopo questa crisi globale.

Sarà azzardato, ma qui di seguito proporrò tre utopie positive, basate su una speranza concreta, e anche su una certa consuetudine con gli eventi nel contemporaneo: appena la vita riprenderà il suo corso, dimenticheremo con estrema velocità quanto è successo e con estrema probabilità torneremo a fare molti degli errori che facevamo prima che tutto questo si avverasse. In fondo la facoltà di dimenticare è innata nel genere umano.

Il sostegno alla lettura
Prima utopia, copiata al 90% da quanto scritto da Thomas Piketty in Il Capitale nel XXI secolo (Bompiani, 2014): un’imposta nazionale per la lettura. È evidente infatti che serve ricostruire un legame di base all’interno della comunità e che la divaricazione tra i saperi è così ampia che per informarci non possiamo contare sul digitale come unica fonte. Il tema della lettura dei quotidiani, dei settimanali, dei mensili, dei libri deve essere vissuto come prioritario. Diceva benissimo La Rochefoucauld nel 1665: non si tratta di far leggere ma di far pensare.

Tuttavia oggi la nostra soglia di attenzione deve essere assolutamente ricalibrata. Chi presiederà alla qualità dell’offerta informativa? Gian Antonio Stella in un recente commento sul «Corriere della Sera» ha scomodato Elias Canetti, ricordando come «nell’oscurità le parole pesino il doppio»; molti soggetti si sono resi disponibili a lavorare contro le fake news. Ma è proprio l’esercizio del leggere che oggi viene meno. Come aveva intuito Walter Ong nel 1974, è in atto un definitivo ritorno all’oralità, basato sugli strumenti contemporanei del comunicare.

Ci basta vedere per sapere? Il lavoro sul vocabolario collettivo esige la costruzione di competenze settoriali. In Italia si legge troppo poco, sia a livello di narrativa che di saggistica. Nelle regioni del Sud legge meno di una persona su tre; solo una persona su 12 in Italia legge più di un libro al mese; come è drammaticamente noto, in Europa siamo quintultimi! Come abbiamo provato a fare nel turismo, possiamo tranquillamente copiare la Spagna, che dal 2007 ha avviato un «Plan de fomento de la lectura» e in meno di quindici anni è passata dalle nostre percentuali a quelle dei Paesi con più lettori, come Germania (79%) e Danimarca (82%), senza ancora raggiungere le vette di Svezia e Paesi Bassi (rispettivamente 90 e 86% di lettori!).

Qui non c’è lo spazio per scendere nei dettagli, ovviamente, ma lo sforzo principale andrà fatto a livello scolastico. In realtà, si tratta proprio di uno stile di vita, per troppi decenni squalificato e che bisogna invece far tornare «di moda». Perché il problema non è tanto il leggere, quanto il capire. Ci sono problemi serissimi di analfabetismo di ritorno, di comprensione dei testi e riconoscimento delle fonti.

La cultura e la lettura sono tutt’oggi visti come elementi elitari, e c’è addirittura una porzione di popolazione che si dichiara orgogliosa di non leggere, di non andare nei musei, di non andare a teatro. Il nostro è un problema di «cultura della cultura», sempre per pochi che snobbano gli altri. Il giorno in cui la gente non si domanderà più come ci si veste per andare a teatro, avremo vinto.

L'autore è un manager specializzato nell’organizzazione culturale; nel 2019 ha diretto gli eventi di Matera Capitale europea della Cultura

MA DOMANI?
Prima utopia: sostegno alla lettura
Seconda utopia: integrazione digitale
Terza utopia: un piano strategico per la cultura


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