Lorenzo Casini: «Resto soprattutto uno studioso»

Intervista con il capo di Gabinetto del Mibact, dal 2014 al fianco di Franceschini

Lorenzo Casini
Edek Osser |

Roma. Lorenzo Casini, 44 anni, professore ordinario di Diritto amministrativo nella Scuola Imt Alti Studi Lucca e copresidente dell’International Society of Public Law (Icon-S), è dal settembre 2019 capo di Gabinetto del ministro per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo, Dario Franceschini. Casini racconta così il suo incontro con i beni culturali: «Ho iniziato a studiare Diritto del patrimonio culturale alla fine degli anni Novanta, all’Università di Roma «La Sapienza», all’epoca affollatissima: mi sono subito appassionato, tanto da laurearmi con una tesi sulla valorizzazione dei beni culturali. Fu Sabino Cassese a suggerirmelo, perché il tema era allora poco esplorato, soprattutto dai giuristi. I maestri servono anche a questo».

Sono passati oltre vent’anni da allora. Quali sono stati i passaggi fondamentali della sua carriera?

Sono stati anni di studio, ricerca e insegnamento, ma anche di lavoro per le istituzioni in Italia e all’estero. Ho cominciato a insegnare all’Università Diritto urbanistico nel 2002, alla «Sapienza», dove sono stato fino al 2015, quando ho vinto la cattedra «Carlo Ludovico Ragghianti» alla Scuola Imt di Lucca. Nel 2003 ebbi l’opportunità di entrare nella segreteria tecnica della Commissione per il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio creata dall’allora ministro Giuliano Urbani. Nel 2008-09 ho lavorato alla New York University come Research fellow di Diritto globale. Poi cinque anni alla Corte costituzionale, come assistente di studio di Sabino Cassese. Dal 2014 al 2018 sono stato al Mibact come consigliere giuridico del ministro Franceschini.

Com’è arrivata la collaborazione con Franceschini?

Ero stato nella Commissione di esperti nominata dal suo predecessore al Mibact, Massimo Bray. La Commissione, presieduta da Marco D’Alberti, aveva chiuso i lavori nell’ottobre 2013 e io avevo proseguito la mia collaborazione studiando le ipotesi di riorganizzazione, mentre partecipavo ai «tavoli» di Carlo Cottarelli, allora commissario per la «spending review». Fu naturale per Franceschini rivolgersi anche a chi aveva lavorato sul riordino del Ministero fino a poco prima del suo arrivo.

Quindi la «riforma Franceschini» è nata anche dal lavoro di quella Commissione?

Sì, ma non solo. La riforma è stata possibile perché si è riusciti a realizzare quanto era stato chiesto da decenni, in numerose commissioni di indagine: riconoscere i musei statali come vere istituzioni. La riforma ha disegnato, nel Ministero, le istituzioni museali, in coerenza con gli standard internazionali dell’Icom. A Franceschini e all’allora Governo va riconosciuto questo merito, insieme con altre iniziative importanti, come la nuova Legge cinema o l’ArtBonus.

Secondo lei, l’ArtBonus funziona e avrà degli sviluppi? Si può pensare a un’ulteriore estensione delle agevolazioni fiscali?

Mentre lavoravamo a questa misura, nel maggio 2014, è nato il mio primogenito Giulio, detto appunto ArtBonus. Perciò sviluppi ne avrà sicuramente! Scherzi a parte, parliamo di un beneficio fiscale importante, atteso da tempo in Italia. In un solo quinquennio, l’agevolazione ha consentito la raccolta di centinaia di milioni di euro ed è stata già estesa allo spettacolo dal vivo e agli interventi nelle aree colpite dal sisma. In aggiunta, il Mibact in questi anni ha lavorato, insieme con l’Agenzia delle Entrate, per fornire un’applicazione estensiva della misura e favorire il più possibile le forme di mecenatismo. Non possono e non debbono escludersi altri allargamenti, anche in questa fase di crisi e ripartenza.

Per molto tempo quello dei Beni culturali è stato considerato l’ultimo dei Ministeri, ma Franceschini lo ha definito «il più importante Ministero economico d’Italia». Che cos’è cambiato negli anni?

Purtroppo si è spesso data per scontata l’esistenza di questo nostro immenso patrimonio, come se si alimentasse da sé, con la propria storia. Ma servono e sono sempre servite molte risorse, mai stanziate a sufficienza: basta leggere le relazioni al Parlamento dei ministri della Pubblica istruzione nel secondo dopoguerra o il carteggio Croce-Ricci un secolo fa, per vedere come i problemi siano sempre gli stessi. Vi sono stati periodi particolarmente negativi, come quello dei tagli drastici compiuti tra il 2009 e il 2012. Ma dal 2014 abbiamo riportato il budget del Ministero a livelli superiori a quelli del 2001, con un aumento di bilancio, rispetto al 2013, vicino al 70%. E ciò si deve alle scelte di Franceschini, fatte proprie anche da Governo e Parlamento.

Quando uscirà questa intervista sarà stato approvato il nuovo decreto con misure importanti anche per la cultura. Come ci stiamo preparando per la Fase 2?

La priorità e l’urgenza vanno alle misure di sostegno economico per il turismo e la cultura: tutela dei lavoratori, degli operatori e delle imprese. Ma siamo già al lavoro per definire le condizioni di sicurezza e le modalità operative per riaprire musei, archivi, biblioteche, così come stiamo ragionando, insieme con tutte le strutture, i sindacati e le associazioni, su ogni settore di competenza del Mibact: turismo, libro ed editoria, istituti culturali, spettacolo dal vivo, cinema, imprese culturali e creative. Al di là delle riflessioni sull’impatto che questa tragedia potrà avere su economia e società, al primo posto vi è la tutela della salute, perciò dipendiamo naturalmente dalle valutazioni del Comitato tecnico scientifico.

E quali misure sono previste per le imprese che operano nel settore cultura?

In primo luogo, bisogna assicurarsi che gli ammortizzatori sociali siano adeguati e valgano senza esclusioni per tutti i lavoratori. In secondo luogo, occorre istituire fondi dedicati per sostenere tutti gli operatori e tutte le imprese coinvolte. Per lo spettacolo, il cinema e l’audiovisivo esistono già due fondi ordinari e si tratta di estenderne l’uso. In più, è stato creato un fondo emergenze. È stata chiesta l’istituzione di un fondo cultura, per assicurare liquidità alle imprese culturali e creative. Non un fondo di investimento immobiliare, perché lo Stato deve sostenere il patrimonio culturale, non svenderlo.

Un settore che dipende dal Mibact e adesso è in grave crisi è quello del turismo. Che cosa si sta preparando?

Il turismo è il settore che richiede gli sforzi maggiori: è tra quelli più gravemente colpiti, lo è stato prima di tutti gli altri (il blocco dei voli dalla Cina è iniziato a fine gennaio) e farà più fatica a riprendersi. Il turismo potrà ripartire presto in Italia, ci auguriamo, ma ritornare a viaggiare normalmente da e per altri Paesi verosimilmente non accadrà presto. Inoltre, l’impatto economico sul turismo non è comparabile con quello sul settore culturale. Servono quindi incentivi, contributi, agevolazioni fiscali, interventi aggiuntivi per tutelare i lavoratori stagionali e occorre potenziare gli investimenti, anche per tutelare le strutture ricettive da offerte predatorie.

È in corso un ampio tentativo, anche del Mibact, di mettere online i musei, le mostre, la cultura, e così portarli a casa della gente. Con quali risultati secondo lei?

Nel complesso positivi. È successo tutto molto rapidamente. I musei continuano a esistere, ad avere un rapporto con il pubblico. Certo, essere presenti sulla rete non basta, ma bisogna tenere conto dell’emergenza che ha costretto tutti a spostarsi immediatamente ed esclusivamente sul digitale. Con il tempo questo strumento sarà affinato e tutte le strutture andranno messe in condizione di poterlo usare a pieno. In questo contesto emergenziale, la digitalizzazione e la messa online di contenuti sono state uno sforzo enorme, ma anche un’importante occasione di verifica dello stato dell’arte.

La ripresa e il rafforzamento dei musei, soprattutto dei 40 grandi musei autonomi, è legata anche alla loro funzionalità. Di questi 8 sono di nuova istituzione e i loro direttori saranno nominati con una nuova selezione pubblica internazionale che dovrebbe concludersi a luglio. Verranno rispettati questi tempi?

Direi di sì. In questa fase la Commissione deve valutare titoli, curricula e lettere di motivazione dei candidati. Per i colloqui c’è ancora tempo e comunque si vedrà più avanti se dovranno essere svolti tutti in modalità telematica. D’altra parte già nel 2015 tenemmo colloqui via Skype, per chi era in Australia o negli Stati Uniti e aveva giustamente chiesto di non sostenere la spesa del viaggio per venire a Roma.

Molti direttori di musei autonomi lamentano limiti alla loro capacità operativa: l’impossibilità di assumere e comunque di governare direttamente il personale, che dipende sempre dal Ministero. Qualcuno ha proposto di trasformare quei musei in fondazioni. Sarebbe utile e possibile secondo lei?

No. Capisco e conosco le posizioni dei direttori, specialmente di chi ha potuto lavorare in altri contesti. Ma in Italia i musei dello Stato sono appena nati e restano uffici del Ministero, sottoposti a tutte le regole previste per la Pubblica amministrazione, ivi incluse quelle per reclutare personale. Ricordo che nel 2011, per poter assumere nuovi funzionari a Pompei, a seguito del crollo e delle raccomandazioni dell’Unesco, ci volle un decreto legge. Dal 2014, 40 istituti statali hanno acquisito un’autonomia importante, simile a quella che ebbe in Francia il Louvre prima di essere trasformato in ente pubblico. Parlare di trasformazione in fondazione è quindi fuori luogo, anche perché avrebbe un costo enorme: basti pensare ai dipendenti pubblici, che non opterebbero per lasciare il Ministero, e il nuovo museo fondazione dovrebbe trovare altro personale. La riforma avviata nel 2014 non sarà perfetta, ma la trasformazione dei musei statali in fondazioni non è mai stata in agenda e chi la evoca usa solo argomenti «fantoccio». Diverso è il caso di nuovi soggetti creati dallo Stato insieme con Regioni ed enti locali per gestire musei o siti: qui consorzi o fondazioni sono uno strumento utile (si pensi al Museo Ginori o alla Reggia di Carditello).

Quello dei musei «minori», spesso trascurati e in sofferenza, è un problema ancora aperto. Eppure si parla molto della necessità di valorizzare il nostro «museo diffuso».

Questo debbono farlo le Direzioni regionali musei, ossia gli ex Poli. Ma è uno degli aspetti della riforma ancora non attuati pienamente. I direttori dovrebbero favorire la creazione di reti museali. Siamo fiduciosi, ma servono anni per cambiare un sistema che ha radici profonde e dove il museo non aveva dignità giuridica: sul tema è sufficiente leggere le belle pagine di Franco Russoli, ripubblicate pochi anni fa a cura della Pinacoteca di Brera. Serve investire risorse importanti per finanziare l’intero sistema museale nazionale: il Fondo di sostegno alimentato da una percentuale degli incassi di tutti i luoghi della cultura serve anche a questo.

Un altro punto cruciale è il rapporto con i privati. La riforma ha creato conflitti con le imprese che gestiscono i servizi museali. D’altra parte molti criticano lo Stato per aver ceduto ai concessionari un’attività redditizia senza un’adeguata contropartita.

La riforma ha inteso restituire allo Stato la capacità di governare e dirigere i propri musei e, conseguentemente, anche di negoziare con il privato. Nel 1993 la Legge Ronchey ha previsto i servizi aggiuntivi chiarendo che, se i musei non riescono ad apprestarli con le proprie risorse, si rivolgono all’esterno. Ma i musei non avevano allora una propria organizzazione. È stata creata solo nel 2014. In tutti questi anni lo Stato si è affidato ai privati, divenuti anche vere e proprie eccellenze, che hanno riempito i vuoti. Ovvio che la riforma non sia piaciuta a taluni operatori, perché ora è il museo a decidere se gestire direttamente alcuni servizi o darli in concessione. La riforma ha inteso semplicemente attuare l’idea che il museo sia un luogo vivo, di ricerca, conoscenza e, soprattutto, di tutela. Ecco perché non comprendo chi usa lo spauracchio della dicotomia tutela/valorizzazione: un museo è prima di tutto un luogo di conservazione, ma lo è per fare ricerca, comunicare, educare e promuovere lo sviluppo della cultura.

Lei ha scritto anche diversi libri su problemi internazionali: tra i più recenti, «Potere globale» (Il Mulino) e ora, appena uscito, «Lo Stato nell’era di Google» (Mondadori Università). Sta forse tradendo i beni culturali?

Mai! Anzi, il patrimonio culturale, per sua natura interdisciplinare, è un laboratorio ideale per esaminare i problemi della nostra epoca, dall’impatto prodotto dalle nuove tecnologie all’accelerazione della globalizzazione, sino ai processi di falsificazione (le cosiddette fake news). L’ho potuto vedere tante volte, per esempio quando ho collaborato alla stesura della Dichiarazione di Firenze, nel 2017, nel primo G7 Cultura. Ogni tema giuridico va studiato comparando i sistemi dei diversi Paesi, con attenzione alla società e alla storia e, dunque, al contesto: un esercizio proprio di storici dell’arte, archeologi e di tutti gli studiosi del patrimonio culturale.

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