Lo sguardo di Kjartansson sulla società occidentale
Al Louisiana Museum di Humlebæk la prima grande mostra in Danimarca dell’artista islandese: «Amo la musica, il cinema e il teatro, ma non sono un narratore. Io sono un pittore»

Dal 9 giugno al 22 ottobre, il Louisiana Museum di Humlebæk ospita la prima grande mostra in Danimarca dell’artista islandese Ragnar Kjartansson (Reykjavík, 1976). Il progetto espositivo «Epic Waste of Love and Understanding», a cura di Tine Colstrup e realizzato con il supporto dalla C.L. David Foundation and Collection insieme con Myndlistarsjóður/Icelandic Visual Arts Fund, rende omaggio a una delle voci più significative del panorama artistico contemporaneo.
Dopo aver partecipato, nel 2009, alla Biennale di Venezia in qualità di rappresentante dell’Islanda, Kjartansson è stato celebrato a livello internazionale nelle maggiori istituzioni del mondo. La sua pratica multidisciplinare, sempre in bilico tra melanconia e parodia, abbraccia la musica, la performance, il teatro, la scultura e l’arte visiva. Una commistione di linguaggi con cui l’artista indaga i temi dell’amore, l’identità, la virilità, il potere e la sua assenza, posando il suo sguardo amorevolmente critico sulla moderna società occidentale.
La personale raccoglie una serie di video, dipinti, sculture e disegni. Accanto alle opere meno recenti, come il filmato «Mercy» (2004), vi sono quelle più note come la coinvolgente installazione «The Visitors» (2012), costituita da nove proiezioni video in cui l’artista, insieme ad alcuni suoi amici musicisti, tra cui componenti dei gruppi Sigur Rós e Múm, si esibisce in una villa fatiscente appartenuta alla famiglia Astor. Un lavoro che trae ispirazione dalla poesia «Feminine Ways», scritta dalla sua ex moglie, l’artista e performer Ásdís Sif Gunnarsdóttir, che con versi gonfi di tristezza parla del ruolo ambivalente della femminilità.
Vorrei cominciare dal tema dei sentimenti, che è quello intorno al quale si articola tutto il suo lavoro. In riferimento al titolo della mostra, che ruolo hanno svolto i sentimenti di amore e comprensione, e il loro epico spreco, nell’architettura di questo progetto espositivo?
Penso che tutto il lavoro si muova su un doppio registro: quello individuale e quello collettivo, nel senso che le stesse cose hanno contemporaneamente valenza personale e politica. Amore e comprensione, e mancanza di amore e mancanza di comprensione, si rincorrono continuamente come in una specie di incubo, che muove in realtà da una vicenda intima, un litigio con mia moglie. La mostra si potrebbe definire una sorta di autoritratto e questa è la parte che ha più a che fare con me: la riflessione sulla bellezza del mondo o sulla mancanza di bellezza nel mondo. Affiora una visione molto malinconica dell’esistenza, ma in fondo è una malinconia che conserva un aspetto di dignità, perché c’è sempre qualcosa di meritevole per cui vivere, un orizzonte pieno di speranza.
Riguardo all’allestimento della mostra, come ha inteso guidare lo spettatore alla scoperta del suo universo creativo?
Il punto di partenza del percorso espositivo è costituto da una delle mie opere meno recenti, si tratta del filmato «Mercy» del 2004, dove io, con indosso un completo bianco crema in stile Elvis Presley, strimpello una chitarra ripetendo il medesimo ritornello: «Oh why I keep on hurting you?» (oh perché continuo a farti del male?). Il visitatore, proseguendo, passa davanti a una serie di saliere e pepiere in porcellana («Guilt and Fear», 2022); su ciascuna di esse sono scritte rispettivamente le parole «Colpa» e «Paura». Sullo sfondo riecheggia sempre quella stessa frase «Oh why I keep on hurting you?»: una riflessione sull’identità maschile e sulla volontà di renderla in qualche modo più ambigua. C’è qualcosa nel mio lavoro di cui nemmeno io mi ero davvero reso conto e di cui solo ora sto prendendo coscienza, mentre con la curatrice Tine Colstrup procediamo nell’allestimento. Ma non posso dire veramente che cosa sia, allo stesso modo in cui non si può dire con precisione che cosa sia l’arte visiva.
Nelle sue opere lei cerca di rendere visibile ciò che è invisibile, intendo l’emozione legata alla musica. Da dove nasce questa necessità di negoziare la compresenza di aspetti visuali e sonori?
C’è qualcosa che amo profondamente ed è legato al tema del vedere la musica, mentre viene eseguita dal vivo. Penso che derivi in parte dall’essere stato un bambino che negli anni Novanta guardava continuamente alla televisione il canale musicale Mtv. Ricordo di aver imparato un po’ da lì il ritmo interiore. Un giorno ho letto un’intervista al gallerista e collezionista Charles Saatchi, che ammetteva di non apprezzare la videoarte e anzi, fondamentalmente, sosteneva non ci fosse differenza tra videoarte e Mtv. È un giudizio davvero divertente! E quindi, in relazione al mio lavoro come la mettiamo? La commistione di musica e immagini, questa mescolanza di registrazione audio e ritratto, nasce dal fatto che mi piace catturare i momenti in cui avviene l’esibizione, perché penso siano davvero preziosi. Probabilmente è solo questo.
La componente della ripetizione di un motivo, di una scena o di una singola strofa per un periodo di tempo prolungato, è certamente una delle cifre caratterizzanti il suo lavoro. Perché la ritiene così funzionale alla rappresentazione?
È una costante nelle mie opere e credo di essermene innamorato da ragazzo, quando frequentavo la chiesa cattolica. La funzione religiosa era tutta permeata da questo carattere della ripetitività. Ovviamente sono stato influenzato anche dai miei genitori che, lavorando in teatro, durante le prove rifacevano in continuazione le parti a loro assegnate. Tutto diventa cerimonia quando lo ripeti, è straordinario. La reiterazione riesce a far sentire speciale anche chi non lo è, a conferire un’aurea di spiritualità anche a noi che siamo solo esseri umani. Amo la musica, il cinema e il teatro, ma non sono un narratore. Io sono un pittore. Posso lavorare con tutti questi elementi per costruire una narrazione, ma poi sbarazzarmene attraverso l’impiego della ripetizione. È in quel momento che il lavoro viene destituito del suo carattere narrativo e assume invece dimensione pittorica.
In riferimento al suo lavoro, lei parla spesso di un’energia che da esso scaturisce e che è più importante dell’oggetto in sé. Che cosa intende esattamente?
Intendo che ero già adulto quando ho capito il potere dell’oggetto e credo che questo dipenda dal fatto che sono cresciuto in Islanda, un luogo in cui non si ha la possibilità di vedere grandi oggetti d’arte. Certo, ho viaggiato per il mondo con i miei genitori ma, una volta a casa, gli oggetti rimanevano sempre molto lontani da noi. Non ci sono edifici antichi o memoriali nel mio Paese. E forse è per questo che il movimento concettuale Fluxus ha riscosso grande successo in Islanda. Qui l’arte è molto legata alla tradizione orale, l’oggetto deve contenere in sé una storia e questa deve lasciarsi in qualche modo raccontare.
Potremmo forse dire che questa energia si lega al carattere processuale della sua arte? Un’arte connessa al processo di esistere e alle emozioni che lo determinano?
Sì, assolutamente. Arte processuale è un ottimo modo per definire quello che sto cercando di fare. Intendo dire che tutto il mio lavoro riguarda sempre il processo. È una grande fotografia del processo, credo proprio sia così.
Nell’imperitura dialettica di bellezza e bruttezza, di amore e solitudine, di tragedia e commedia che caratterizza la vita, lei dove si colloca?
Ho stabilito la mia dimora nella zona grigia, è lì che vivo. È lì che intendo restare. Potrei risponderle così, prendendo a prestito i versi della poesia di un amico. Quello che amo dell’arte è anche questa sua dualità, il fatto che possa essere allo stesso tempo feccia e nobiltà. Ho cercato di allontanarmene, ma poi ci torno sempre. È la vita, e sa una cosa? Mi affascina terribilmente.