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Le utopie di Gursky

Chiara Coronelli

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Gursky è osservatore lucido degli spazi dove si svolge l’esistenza e dell’umanità che li occupa

Resta ancora imbattuto il record toccato nel 2011, quando Christie’s batteva a New York per 4,3 milioni di dollari la sua «Rhein II»: tre metri di lunghezza dove scorre orizzontale e solitario un tratto del fiume Reno. Ma il nome di Andreas Gursky va oltre il clamore di quell’evento.

Considerato tra i maggiori artisti contemporanei, il suo percorso lo porta lontano dall’insegnamento dei Becher, suoi maestri all’Accademia di Düsseldorf, tanto che già dai primi anni Novanta i suoi lavori scattati in analogico vengono manipolati digitalmente in nuove visioni. 

Convinto che le fotografie siano autorizzate a mentire, Gursky è osservatore lucido degli spazi dove si svolge l’esistenza e dell’umanità che li occupa. «Andreas Gursky in Museum Frieder» è la personale che il Museum Frieder Burda dedica all’artista tedesco che ha collaborato con il curatore Udo Kittelmann. Il percorso abbraccia tutta la produzione, dai primi lavori fino alle invenzioni più recenti, in una direzione che rivela il suo interesse per «le prospettive globali, con le utopie sociali di oggi».

Con il presupposto che «la realtà può essere mostrata solo se costruita», Gursky viaggia anche tra le masse di Pyongyang, la Piramide di Cheope, le Borse internazionali, i musei, i negozi di Prada e di Toys «R» Us, i condomini residenziali, i paesaggi, ricomponendo i luoghi per farne dei fenomeni visivi, grandi tableaux dove i dettagli, ben chiari a uno sguardo ravvicinato, vengono riassorbiti dalla stuttura d’insieme che diventa unico grande segno del nostro tempo (fino al 24 gennaio, catalogo Steidl).

«Pyongyang I», 2007

Chiara Coronelli, 23 ottobre 2015 | © Riproduzione riservata

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