Le insidie del mercato dell’arte

Tutorial per collezionisti: l’acquisto di un bene culturale non è un investimento ma è un atto d’amore

Il «Cavadenti» della Cassa di Risparmio di Prato è una delle opere non unanimemente attribuite a Caravaggio
Fabrizio Lemme |

Il mercato dell’arte presenta numerose insidie ma questo non lo rende del tutto particolare rispetto agli altri, quasi fosse un mercato anomalo: il mercato azionario e il mercato immobiliare sono anch’essi «a rischio» (il primo anzi ad altissimo rischio) e gli unici investimenti al di fuori di ogni insidia sono quelli eminentemente voluttuari. A questa conclusione arrivai negli anni Settanta colloquiando con banchieri ginevrini che allora frequentavo intensamente. Si trattava di una boutade semiseria ma intrisa, ahimè, di profonda filosofia.

I collezionisti avveduti, ovviamente, hanno imparato da soli a difendersi da tali insidie. Ma la relativa preparazione è stata, certamente, il frutto di numerose e precedenti buggerature: come insegnava Mazzini, ogni educazione richiede «lacrime e sangue». Supponendo che qualcuno intenda costituire una collezione, vorremmo, nell’esperienza di un esercizio collezionistico ultracinquantennale (completato anche da ricerche e da studi per la professione o per la docenza), impartirgli qualche suggerimento.

Innanzitutto il mercato dell’arte si divide in tre grandi settori. Il primo è quell’archeologia, cioè dei beni culturali legati a civiltà fiorite dall’età più antica (nell’area del Mediterraneo, potremmo farla risalire ad Hammurabi, sovrano babilonese vissuto circa 1.700 anni prima di Cristo; nell’area orientale le testimonianze risalgono anche a tempi anteriori) e protrattesi sino all’età carolingia (X secolo). Il secondo è il settore dell’arte antica, dall’alto Medioevo sino alla fine del XVIII secolo; il terzo, quello dell’arte contemporanea, va dalla Restaurazione (1815) sino ai nostri giorni.

Secondo la legislazione italiana dal 30 giugno 1909, data della legge n. 364, tutto quel che viene reperito nel sottosuolo italico appartiene allo Stato, del cui patrimonio indisponibile entra a far parte dal momento stesso del ritrovamento. Ciò comporta che il bene archeologico non possa mai entrare nella proprietà privata, neppure per usucapione. Ne consegue che qualunque reperto scavato dopo la data di entrata in vigore dell’accennata legge (agosto 1909) non possa essere oggetto di valido acquisto: in qualunque momento esso potrebbe infatti essere rivendicato dallo Stato e l’onere della prova di una provenienza da scavi anteriori al 1909 incombe a chi intenda resistere alla pretesa.

Solo la menzione dell’oggetto in atti aventi data certa anteriori al 1909 potrebbe consentirne la proprietà privata e l’ipotesi è certamente difficile a verificarsi. Quanto alla provenienza dal territorio italico, il problema è più complesso. Essa è infatti certa per l’arte etrusca e per quella italica, testimonianze peculiari della nostra cultura; potrebbe viceversa formare oggetto di contestazione per l’arte latina o greca (o della Magna Grecia), caratterizzate da una uniformità di stile in tutto il territorio del Mediterraneo, che i Romani chiamavano con orgoglio «mare nostrum». L’onere della dimostrazione al riguardo dovrebbe competere allo Stato rivendicante, costituendo presupposto della sua vantata proprietà.

Purtroppo, la giurisprudenza pone la dimostrazione negativa anche di tale presupposto a carico del privato: in materia la legge è totalmente rigorosa, perché ogni giudice considera che l’appartenenza allo Stato del bene rivendicato lo fa diventare proprietà comune, della quale anche lui, come cittadino, può fruire. Dunque il giudice è in un certo senso parte in causa! In conclusione il mercato dei beni culturali archeologici è necessariamente limitato ai reperti dell’arte precolombiana e dell’arte orientale.

Veniamo all’arte antica. Il patrimonio culturale dell’arte europea posteriore al regno di Ugo Capeto (987) è costituito essenzialmente, da reperti anonimi. Per individuarne gli autori nella storia dell’arte è così fiorita una scienza che si chiama attribuzionismo i cui presupposti scientifici riposano sui cosiddetti dati automatici di scrittura o dati morelliani. Che significa questa enigmatica espressione?

La storia dell’arte si fa normalmente risalire al momento in cui Giorgio Vasari scrisse le sue famose Vite (prima edizione, 1550). Altri, più rigorosi, ne considerano il fondatore scientifico l’abbate Luigi Lanzi (1732-1810). Comunque, solo nell’Ottocento inoltrato Giovanni Morelli (1816-91), patriota-senatore-artista e studioso, incaricato dal ministro Francesco De Sanctis (il primo e più grande Ministro della Cultura che abbia avuto l’Italia) di procedere con Giovanni Battista Cavalcaselle al repertorio del patrimonio culturale dell’Umbria e delle Marche, elaborò questa teoria: nella sua produzione ogni artista è solito ripetere quasi meccanicamente alcuni «dati di scrittura» su particolari apparentemente insignificanti (i capelli, le unghie, la forma delle mani ecc.) ma sintomo di identificazione delle opere a lui attribuite.

Dal momento di tale scoperta si è formata la cosiddetta scienza attribuzionistica originariamente basata solo sulla ricostruzione dei «dati morelliani» tipici di ogni singolo artista e da riscontrare nel bene da lui prodotto. Successivamente al Morelli, la scienza attribuzionistica, grazie soprattutto ai contribuiti di Erwin Panowsky, Ernst Gombrich e Arnold Hauser, si è arricchita di ulteriori dati di riconoscimento, fondati soprattutto sull’iconografia e sulle scienze sociali. Indiscutibilmente nel mercato dell’arte antica il bene culturale ha un valore di mercato infinitamente diverso a seconda dell’artista al quale è, più o meno arbitrariamente, attribuito.

Per fare un esempio, un’opera attribuita a Caravaggio ha un valore immensamente superiore all’opera di un anonimo caravaggesco e appunto sulle attribuzioni al maestro fioriscono problemi e polemiche non ancora risolti: ad esempio intorno al «Cavadenti» della Cassa di Risparmio di Prato si discute da oltre cinquant’anni.

Un’opera unanimemente riconosciuta dalla comunità scientifica come di Caravaggio ha un valore, un’opera controversa ne ha un altro assai inferiore; un’opera ascrivibile ad anonimo caravaggesco ha un prezzo ulteriormente e largamente inferiore. E allora come difendersi nel caso sia sottoposto al collezionista un dipinto la cui ascrizione all’una o all’altra categoria comporta queste imponenti differenze di valore?

Nel caso di un acquisto importante l’onesto parere di un critico di fiducia è essenziale ma, se questi commette un errore, non vi è, almeno secondo la giurisprudenza prevalente, alcun rimedio. Solo l’attribuzione manifestamente in malafede può generare responsabilità dell’esperto consultato.

Nell’arte contemporanea, invece, l’insidia viene dall’alto numero dei falsi presenti sul mercato. Soprattutto nell’arte del Novecento, quel che caratterizza il bene culturale è non la qualità artistica o l’elaborazione della composizione, come nell’arte antica, ma l’invenzione. Questa, peraltro, una volta proposta dall’artista, diventa troppo facilmente imitabile: Lucio Fontana ha creato i suoi famosi «Concetti spaziali» inserendo dei tagli o dei buchi all’interno di una tela dipinta a monocromo. L’idea è in se stessa imitabile: il taglio e il buco sono, per loro natura, non difficilmente imitabili per quanto Flavio Fergonzi, ordinario nella Scuola Normale di Pisa, non concordi su questo. In questi casi, chi intenda acquistare l’opera dovrà innanzitutto verificare se la sua attribuzione sia o meno sostenuta da dati storici incontestabili.

Il grande storico dell’arte Maurizio Fagiolo dell’Arco spesso supportava le sue attribuzioni con materiale fotografico ove si dimostrava la presenza dell’opera in epoca o in contesti inoppugnabili, ma il dato storico a volte non sussiste oppure è equivoco. Ancora una volta l’insidia appare insuperabile, anche perché l’expertise rilasciata al riguardo è solo la manifestazione di un’opinione, non l’epifania di una certezza.

Qual è la conclusione? L’acquisto di un bene culturale non è un investimento ma è un atto d’amore, che si vive e si gode per se stesso soltanto. Come ogni atto d’amore può esserci la delusione postuma: ma essa deve essere accettata, perché vivere ogni momento della vita comporta il rischio, è in se stesso insopprimibile e proprio per questo affascinante. Torniamo all’affermazione iniziale: l’arte, come ogni acquisto di bene voluttuario, è sempre un fatto positivo!

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