Le affinità elettive di De Pisis, Paolini e Vitone
Al Museo Novecento ricerche raffinate si muovono su territori comuni ma in tempi diversi e muovono una rassegna ricca di spunti sul significato dell’arte

Il Museo Novecento propone fino al 7 settembre un progetto che si compone di tre mostre autonome ma concatenate, una sorta di «tre per uno», che riunisce artisti di diverse generazioni, Filippo De Pisis, Giulio Paolini e Luca Vitone, suggerendo coincidenze e corrispondenze inaspettate. Il percorso espositivo si apre al piano terreno con le opere di Giulio Paolini, che indagano gli inganni della logica della percezione. Intessute di citazioni, duplicazioni e frammentazioni, rimandi letterari, filosofici e alla storia dell’arte dei secoli trascorsi, ma qui perlopiù inedite, sono pensate per questa occasione espositiva.
«L’opera preesiste all’intervento dell’artista (che è il primo a poterla contemplare)» scriveva, nel 1975, Paolini. E se questa affermazione non è mutata nei decenni, i suoi lavori, nei quali ritroviamo il consueto uso di collage, fotografia, calco in gesso, a creare installazioni, a ridefinire lo spazio e il nostro incedere al suo interno, recano qui per la prima volta un’intonazione più autobiografica (prima l’autore era sempre assente, mentre ora si mette in scena) e, seppur tradotta con una certa leggerezza, crepuscolare, che è evocata dal titolo stesso della mostra, curata da Bettina Della Casa e Sergio Risaliti: «Quando è il presente?».
Ciò che Rainer Maria Rilke si chiede in una lettera a Lou Andreas Salomé, traduce infatti la riflessione di Paolini sulla nostra incapacità di cogliere la vita nella sua essenza, potendola afferrare solo nel suo divenire, ma anche sul ruolo dell’arte nella società e sulla figura dell’artista in un mondo globalizzato. Questo pensiero culmina nell’installazione al centro della sala principale della mostra, dove un quadro novecentesco di Piero Garino appartenuto alla famiglia dell’artista e raffigurante un pittore nell’atelier, è il dispositivo per una mise en abyme, con oggetti provenienti dallo studio di Paolini stesso, tra cui cornici, un tavolo su cui è posata una scacchiera con tasselli delle sue opere, una poltrona, un libro aperto con pagine bianche e degli occhiali.
Non sappiamo in che tempo porci, se di fronte a qualcosa di appena accaduto o che deve ancora compiersi. Ciò che preme all’artista è astrarsi dalla contingenza, per accedere alla dimensione tutta metafisica dell’opera, giudicando ormai superata «la stagione delle prediche liberatorie: “la rivoluzione siamo noi” (ieri) o “salviamo il pianeta” (oggi). Nessuno, dunque, è in grado di “fare arte” perché è l’opera, essa stessa, ad accedere alla cifra segreta e immutabile della propria esistenza».
Nella sala cinema del museo, la proiezione del balletto «Teorema», andato in scena al Teatro del Maggio Musicale di Firenze dal 28 aprile al 6 maggio 1999, con la scenografia di Paolini, oltre a essere un omaggio a Pasolini, nel centenario della sua nascita, celebra il legame di Paolini con la città di Firenze e una sua gloriosa istituzione.
Entriamo poi nell’«Illusione della superficialità», a cura di Sergio Risaliti e Lucia Mannini, dedicata a Filippo De Pisis, pittore solo all’apparenza superficiale perché capace, indicava Elio Vittorini, «di raggiungere 9mila metri di profondità senza nemmeno indossare lo scafandro». De Pisis è proposto a partire da una rilettura della critica, da Francesco Arcangeli a Paolo Fossati, come una sorta di anticipatore di quell’arte concettuale di cui Paolini è uno dei massimi esponenti.
La lettura appare intrigante e azzardata, considerando la carica esistenzialista che segna le opere di De Pisis ma che convince quando ci si immerge nel mistero delle allegorie, dei rebus visivi e dei rimandi all’antico, che sono nelle nature morte del ferrarese, con oggetti che ricorrono poi nelle opere di Paolini stesso.
A tessere in qualche modo le fila giunge infine Luca Vitone con il progetto espositivo «D’après» concepito proprio in relazione a quei due maestri amati, trattando, sul filo concettuale, analoghi temi, e svolgendo anche qui una mise en abyme: la carta da parati, su cui sono esposte le opere di De Pisis, riproduce più volte una foto che ritrae il maestro ferrarese nello studio, dove appare anche un pupazzo, a sua immagine, simile a quello avuto da Vitone in dono da amici e ora posato, in altra sala, sulla sedia appartenuta al proprio padre.
Il tema dell’atelier ritorna nell’acquerello, realizzato con la polvere prelevata dallo studio di Giulio Paolini, mentre una grande scultura olfattiva è ispirata al profumo del fiore nella tela «Il gladiolo fulminato» di De Pisis. Spostandoci infine nell’altra sede della mostra, il Museo di San Marco, diretto da Angelo Tartuferi (che ha collaborato col Museo Novecento già nel 2019 per la mostra di Wolfgang Laib), ritroviamo Giulio Paolini confrontarsi con la pittura luminosa di Beato Angelico, suo ideale di perfezione; nel collage incorniciato su cavalletto «Noli me tangere», posto nella cella dell’omonimo affresco del frate domenicano, Paolini traduce il senso della distanza sospesa e malinconica di un contatto costantemente mancato.