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La prova scritta di un concorso pubblico

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La prova scritta di un concorso pubblico

Lavorare nei musei

Un giovane professionista museale analizza la situazione e le problematiche di una formazione focalizzata e altamente specializzante, quella nei beni culturali, e dei suoi sbocchi nel mondo del lavoro

Cristiano Croci

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Faccio parte di una generazione molto particolare. La generazione che passerà alla storia come quella che entrò nel mondo del lavoro durante la Grande Recessione, una delle peggiori crisi economiche del secolo. La prima generazione dopo più di 70 anni che si ritroverà più povera della precedente. All’interno di questa generazione, faccio parte di un gruppo più ristretto, che invece si ricorderà come quello composto dagli sciagurati che scelsero la via dei Beni culturali all’università.

D’altro canto, siamo anche una delle prime generazioni che ha potuto usufruire di una formazione focalizzata, fin dall’inizio, e altamente specializzante. Il percorso di studi di questa generazione è stato anche mediamente molto più lungo rispetto a quello dei nostri colleghi più anziani. Dopo i cinque anni universitari canonici, sono stati indispensabili altri anni di formazione e specializzazione. Oggi l’offerta formativa in questo ambito è molto vasta: si può scegliere di fare un master in management dei beni culturali e diventare «manager» dei beni culturali. Si può decidere di diventare esperto di didattica museale, di comunicazione museale, registrar, demoetnoantropologo; si può decidere persino di diventare curatore di mostre (alla faccia di quelli che si accalcheranno per un posto da curatore di museo!).

Per ognuna di queste professioni esistono decine di corsi universitari, master di I e II livello, scuole di dottorato, scuole di specializzazione e accademie di ogni tipo, da frequentare online o in aula. Tutti questi corsi sono utili, formativi e appassionanti ma nascondono, dietro il velo dell’attrattività intellettuale, un’impietosa verità, cioè che il mercato del lavoro nei musei non è in alcun modo strutturato per accogliere una tale eterogeneità di figure professionali. Non si può negare che queste figure esistano in certi luoghi della cultura, ma si può affermare con certezza che di queste figure non c’è la minima richiesta, a fronte delle migliaia di persone specializzate che escono ogni anno dai loro percorsi formativi.

Facciamo un esempio. Il sito statunitense museum.jobs, una delle tante piattaforme dedicate interamente alla ricerca di lavoro all’interno di musei, pubblica circa 4-5 nuovi annunci con una cadenza media settimanale. Il 23 febbraio 2019 erano attivi 73 annunci di lavoro per varie posizioni: curatore, manager, visitor experience associate (di cui non trovo un omologo in italiano), analista, educatore. In un altro annuncio si legge che la posizione di «director of interpretation», con il requisito della laurea triennale, lavorerà al Frontier Culture Museum of Virginia dirigendo un suo staff, in sinergia con un responsabile della didattica, il quale a sua volta dirige un suo staff, sotto la supervisione di un direttore esecutivo. Il sito italiano artjob.it, l’unico sito italiano che potremmo avvicinare al succitato omologo d’oltreoceano (neanche specifico per musei, ma per i lavori della cultura in generale) ha pubblicato negli ultimi due mesi tre offerte di lavoro. Nell’ordine: un assistente registrar con un dottorato in Egittologia come requisito, un addetto alla segreteria, un addetto alla distribuzione di audioguide.

Siamo la generazione che beneficia dei grandi impegni dell’università per proiettare i giovani nel mondo del lavoro. Stage curriculari gratuiti, tirocini extracurriculari retribuiti, secondo leggi regionali, dai 3 ai 4 euro l’ora. Nessuno ormai crede più che una volta finito il tirocinio l’istituto ti assumerà, nemmeno gli stessi operatori dei vari uffici di job placement delle università, che l’unica speranza che prospettano è quella del rinnovo: «Il tirocinio dura sei mesi per 300 euro al mese, ma se dimostrerai di essere bravo, pensa, avrai l’opportunità di rinnovarlo per altri sei mesi!».

Usciti dai nostri apprendistati, con un’età che va dai 28 ai 30 anni, ci ritroviamo in balìa del mondo, con tante pretese e poche speranze. L’unica soluzione è quella di aprire la Partita Iva e racimolare lavoretti occasionali qua e là, con questo o quel museo, con questa o quella associazione, fondazione culturale o istituzione pubblica, raschiando il tempo dalla propria vita personale e da quella lavorativa, del lavoro per il quale nel frattempo ci saremo reinventati per tirare avanti.

Ma se la volontà è quella di lavorare in un museo senza essere necessariamente retribuiti non avremo alcun tipo di problema a trovare un’occupazione. I volontari sono oggi un ingranaggio fondamentale nella macchina dei beni culturali italiana: senza di loro centinaia di musei, biblioteche, archivi e siti culturali rimarrebbero chiusi. Ebbene, questa è una vergogna.

Il settore del patrimonio si regge oggi quasi interamente sul dispositivo del volontariato perché è configurato come un settore in perenne emergenza: istituti chiusi e malandati, siti archeologici che si sgretolano, atti vandalici sui monumenti. Quasi come se i nostri beni culturali non fossero qui da secoli ma fossero arrivati tutti in Italia da poco, ammassati su dei barconi in cerca di un porto sicuro e non avessimo avuto il tempo di organizzarci e pensare a come gestirli. Il Fai, il Touring Club, Italia Nostra sembrano essere diventati il corrispettivo di Caritas, Medici Senza Frontiere, Seawatch. Oggi dobbiamo semplicemente rendere grazie alle migliaia di persone che donano il proprio tempo e la propria passione a quella che non dovrebbe essere una nobile causa, ma una semplice mansione da svolgere, prevista dalla nostra Costituzione. Migliaia di volontari che lavorano senza competenze, oppure con le giuste competenze ma senza il giusto compenso.

Se accade tutto questo non possiamo dare la colpa alla penuria economica, la scusa non regge più. Dovremmo forse allargare lo sguardo e rifletterlo su di noi in maniera critica e analitica. Mi sia concesso di dire che il nostro Paese, il più significativo al mondo per ciò che riguarda il patrimonio culturale della società occidentale, è rimasto incastrato nel suo grande, fastoso passato. Le nostre antichità italiche, romane, bizantine, medievali, rinascimentali e barocche ci hanno dato lustro in tutto il mondo e anche un bel da fare. Ma nel frattempo, fuori dai confini dello stivale, si guardava avanti.

Mentre nell’ultimo secolo in Occidente prendevano piede una nuova Museologia e un nuovo modo di concepire, tutelare e valorizzare il patrimonio, l’Italia rimaneva legata a posizioni conservative. L’Italia delle «cose d’arte», l’Italia delle «bellezze naturali». L’Italia dell’estetica gentiliana e di Giuseppe Bottai, la cui legge oggi, dopo 80 anni, costituisce ancora l’impianto di base sul quale è costruito il nostro Codice dei Beni culturali. Già nel Dopoguerra il dibattito internazionale, guidato dall’International Council of Museums (Icom), sosteneva che il museo non avrebbe più potuto intendersi semplicemente come uno scrigno di bellezza in cui aleggia lo spirito della storia, ma come soggetto politico attivo a cui attribuire un ruolo fondamentale all’interno del tessuto sociale, culturale ed economico, come conservatore della memoria del passato ma anche come protagonista del presente e pianificatore del futuro di una società.

Il concetto di patrimonio culturale non può confinarsi nella mera conservazione. Rappresenta una risorsa, un valore che deve essere utilizzato allo scopo di produrre ulteriore patrimonio culturale.
In questa differenza di dinamicità, nello spaventoso ritardo che i musei italiani hanno sull’innovazione digitale e sulla progettazione europea rispetto ai loro omologhi esteri, e in tante altre cose che non posso qui trattare, vedo oggi l’attuale arretratezza del nostro settore. Un grosso cetaceo arenato sul bagnasciuga, incapace di muoversi e di creare spazio per le risorse che lo dovranno alimentare; che però storce il naso quando sente parlare di gestioni manageriali, di business, di valutazione della performance, di turismo e marketing territoriale, di privatizzazioni, salvo aver creato un esercito di persone competenti per fare quello. Un cetaceo che vede, come unica soluzione alle difficoltà sorte da una necessaria quanto complessa riforma del sistema, quella di tornare indietro, al passato, perché quella è l’unica direzione nella quale si è sempre guardato.

Se con la cultura non dovevamo mangiare, mi chiedo perché siano state prodotte tutte queste bocche.

La mia generazione ha bisogno di aiuto, ma hanno molto più bisogno di aiuto i nostri beni culturali. C’è un urgente necessità di cambiamento e innovazione. Sarei contento di concludere citando Altiero Spinelli, un autore che torna oggi a essere drammaticamente attuale e rivoluzionario: «Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi».


L'autore, Cristiano Croci, è un giovane professionista museale. Questo articolo (pubblicato sull'edizione cartacea del mese di aprile de «Il Giornale dell'Arte») è tratto da un suo intervento presentato in un incontro sul lavoro nei musei che si è svolto il 25 febbraio nella Galleria Nazionale dell’Umbria, a Perugia, organizzato da Icom Italia con la Fondazione Ranieri di Sorbello e dedicato al processo di costruzione del Sistema Museale Nazionale.

La prova scritta di un concorso pubblico

Cristiano Croci, 07 agosto 2019 | © Riproduzione riservata

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