La terra è il grembo delle donne indigene
Al Pirelli HangarBicocca la mostra della sudafricana Dineo Seshes Bopape è un atto di denuncia ma anche di speranza e rinascita
![«Born in the first light of the morning [moswara’marapo]», veduta della mostra di Dineo Seshee Bopape, Milano, Pirelli HangarBicocca, 2022. Cortesia l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto Agostino Osio](/immagini/IMG20221005170912945_1000.jpeg)
Parla di terra, la mostra «Born in the first light of the morning [moswara’marapo]» di Dineo Seshee Bopape che si apre il 6 ottobre al pubblico in Pirelli HangarBicocca (fino al 29 gennaio): di terra come suolo, però, con la «t» minuscola, e di vita, ma di una vita vissuta a stretto contatto con la terra e da essa intensamente influenzata.
Parla di culti ancestrali, animisti, praticati ancora dalla nonna dell’artista (lei è nata a Polokwane, in Sudafrica, nel 1981 e vive a Johannesburg), e parla della memoria condivisa della sua gente, che per un’artista africana significa in primo luogo lotta anticolonialista e denuncia dello schiavismo: piaghe comprensibilmente ancora aperte, nelle popolazioni di quel Continente.
Ma parla anche di speranza e di rinascita, grazie all’acqua, generatrice di vita, che ricorre così spesso nei suoi lavori, e grazie ai piccoli germogli che si allungano in fili d’erbe aromatiche o medicamentose, sbucando dalla superficie di fango, pietre, fieno, e di altri materiali pressati, delle sue architetture dalle forme ovoidali, materne, uterine.
Entrando, dopo il suono delle percussioni che evoca il battito cardiaco, a commento del video d’un uomo sognante, è la grandiosa «and-in. the light of this» (2017-22), che subito si vede e che invita a cercare un varco per penetrarvi, in cerca di accoglienza e protezione. Il varco non c’è.
C’è, invece, in quella più piccola, nel cui ventre (un’esperienza intensamente spirituale) si sentono i suoni delle viscere della terra, spesso impercettibili ma qui amplificati, che l’artista, sedotta dalle cave di marmo apuano, ha registrato proprio nelle loro cavità.
«La terra è madre, è la casa e il grembo delle donne indigene», asserisce lei, che non caso è stata presente fino al 2 ottobre nel TBA21 Ocean Space, l’Accademia di Francesca Thyssen-Bornemisza a Venezia, in contemporanea con la Biennale, con lo struggente «My love is alive, is alive, is alive» del 2022 (in mostra).
Così la sua denuncia (da non perdere «The struggle of memory against forgetting» (2017), con le forme di mattoni di terra cruda su cui poggiano elementi naturali, ancestrali, come i calchi del cavo della mano quando vi si stringe l’argilla umida, accompagnati da suoni di vecchi giradischi che diffondono il rumore dell’oceano e cinguettii, intervallati da targhette che evocano le battaglie di liberazione del continente africano), la sua denuncia, si diceva, è dura sì, ma non è mai brutale, feroce, perché attiene profondamente all’«umano», nel suo senso migliore.
Una mostra da non perdere, questa, il cui messaggio è potenziato, per opposizione, dalla contemporanea presenza negli spazi di Pirelli HangarBicocca delle architetture algide e minimali dell’ultraottantenne Bruce Nauman: un altro mondo davvero.