Francesca Spatafora

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Francesca Spatafora

La riorganizzazione del Dipartimento dei beni culturali siciliani

Le molte incongruenze della riforma, entrata in vigore dal primo luglio

Silvia Mazza

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Palermo. C’è dell’anti-tempismo storico nella recente riorganizzazione del Dipartimento dei beni culturali siciliani. Entrata in vigore dal primo luglio scorso, riesce, infatti, a travisare il significato e ruolo della Soprintendenza unica proprio nel momento in cui quest’organizzazione amministrativa, introdotta a livello normativo in Sicilia nel lontano 1977 (entrando a regime dieci anni dopo), viene presa a modello dalla riforma Franceschini.

Non solo. Mentre il nuovo corso Mibact ha dotato di autonomia gestionale e finanziaria i grandi musei statali e i primi parchi archeologici, proprio la Regione che aveva previsto quest’autonomia nel 2000 con la Legge Granata, quella che ha istituito il Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento, non coglie l’occasione di questa fase «riformistica» (la quarta, a partire dalla fine degli anni Settanta, quando la legge regionale n. 80/77 e la n. 116/80 disegnarono l’amministrazione dei beni culturali nella Regione a cui lo Stato nel 1975 aveva trasferito competenze esclusive in materia) per dare piena attuazione a quella stessa legge che prevedeva anche l’istituzione del sistema dei parchi archeologici autonomi in Sicilia. Dopo quello di Agrigento, sono stati attivati, infatti, solo quello di Naxos (2007), di Segesta (2013) e di Selinunte (2013), che però, fatta eccezione da meno di un anno per quest’ultimo, non sono ancora dotati di autonomia.

Il modello autonomistico siciliano per i parchi archeologici
Tanto più che il «modello siciliano» prevede un’autonomia più forte e di marca collegiale, per il fatto che il Consiglio del Parco della Valle dei Templi, come il Comitato tecnico-scientifico del Parco di Selinunte, al pari dei comitati di tutti gli altri parchi, quando saranno istituiti  (solo quello di Agrigento di chiama «consiglio», gli altri «comitati tecnico-scientifici») non ha solo valore consultivo, ma anche potere autorizzativo (legge regionale 20/2000, Titolo I, artt. 9 e 10; T. II, art. 23, c. 5). Né separa tutela e valorizzazione, il passaggio più dibattuto della riforma ministeriale. Mantiene ancora, infatti, la continuità delle due azioni all’interno di uno stesso istituto, non solo inserendole tra le finalità del Parco (T. I, art. 1, c. 2), ma prevedendo pure la presenza del Soprintendente nel Consiglio /Comitato (Titolo I, art. 8, c.1, l. e; Titolo II, art. 23, c. 1, l. a), soggetto, invece, che non ha cittadinanza in seno ai comitati tecnici dei musei autonomi statali.

Insomma il «modello» s’impianta al di là dello Stretto, mentre nella Regione autonoma, che lo ha partorito ben quarant’anni fa e innovato in modo significativo sedici anni fa, finisce per essere incompreso  e indebolito (soprintendenze) e disatteso (parchi). Lo stesso Granata, in fase ancora di concertazione della riorganizzazione, aveva avvertito: «Sui beni culturali non distruggere il “modello siciliano”, ma applicarlo integralmente». Osservando pure che si trattava di «una proposta che scavalca il Parlamento regionale, non apre un dibattito tra le straordinarie professionalità di cui è dotata l'amministrazione regionale dei beni culturali e allo stesso tempo crea una confusione totale tra vecchie e nuove competenze territoriali. Un caos organizzato insomma ma dal quale non nascerà alcuna stella».

Un modello, peraltro, avanzato anche solo sul piano lessicale: mentre, infatti, quelle Mibact si chiamano «Soprintendenze Archeologia Belle arti e Paesaggio» (dove è quanto meno anacronistica la dicitura «belle arti» risalente a Bottai, di matrice crociana, riesumata poi da Bondi), quelle siciliane sono «Soprintendenze per i Beni culturali e ambientali» (dove «ambientali» si potrebbe, comunque, aggiornare in «per il Paesaggio»). È evidente come in questo secondo sintagma sia condensata in modo più efficace quella «visione olistica del patrimonio culturale» che, da tempo assimilata nell’ambito della ricerca, Giuliano Volpe ha auspicato si affermasse anche nella «struttura organizzativa» del Mibact (Patrimonio al futuro, 2015, p. 28), così come in effetti è avvenuto da qualche mese con la cosiddetta seconda fase della riforma Franceschini, che ha dato vita anche nello Stato alle Soprintendenze uniche. Così come fu quasi una rivoluzione lessicale denominare già nel 2000 quello di Agrigento «parco archeologico e paesaggistico», e non soltanto, quindi, come lo sono ancora quelli statali «parchi archeologici», riconoscendo al paesaggio il valore di legante delle diverse componenti del patrimonio. Due anni dopo Salvatore Settis avrebbe pubblicato uno dei suoi saggi fondamentali in cui individua nel sistema paesaggio la peculiarità dell’Italia: L’Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale.

In che cosa consiste, dunque, il travisamento storico in cui è caduta la Sicilia?
Partiamo da questa premessa: la soprintendenza unica su base territoriale, organizzata in una équipe con competenze multidisciplinari, non può garantire efficacemente, rispetto alle vecchie soprintendenze tematiche, lo svolgimento dei propri compiti istituzionali, se non mantenendo distinti gli ambiti settoriali. E così, infatti, che nello Stato all’interno dell’istituto riformato sono previste sette aree funzionali (organizzazione e funzionamento; patrimonio archeologico; patrimonio storico e artistico; patrimonio architettonico; patrimonio demoetnoantropologico; paesaggio; educazione e ricerca). In Sicilia, invece, si è deciso di accorpare incongruamente alcuni ambiti settoriali, per cui i beni architettonici fanno coppia con quelli storico-artistici e quelli paesaggistici con quelli demoetnoantropologici. Le unità operative sono così ridotte a sei, con conseguente contrazione del numero dei dirigenti. È vero che nell’intero Dipartimento beni culturali  c’era da sforbiciare circa 90 postazioni dirigenziali, ma in nome di una pur necessaria semplificazione e contrazione della spesa, si può ammettere che sia sacrificato di garantire competenze specifiche per ogni ambito? Dato che la geografia degli incarichi è in corso di definizione, chi si piazzerà a capo dell’unità Beni architettonici e storico-artistici? Un architetto o uno storico dell’arte? Se la linea sarà quella seguita per la nomina dei dirigenti apicali dei nuovi poli, è facile prevedere che quest’ultimo sarà surclassato dal primo, ma anche da un archeologo, come è avvenuto per il polo di Siracusa che fa capo a Palazzo Bellomo. Che le specializzazioni non siano un fattore così discriminante lo dimostra un caso eclatante: la Soprintendenza di Caltanissetta, l’unica in Sicilia e nel resto del territorio italiano a non avere più in organico neppure un archeologo.

La verità è che la «riforma» siciliana non appare molto altro che solo una misura in attuazione della riduzione di spesa richiesta dalla Legge Regionale di Stabilità 2015. Sia chiaro, anche quella ministeriale muove da questa necessità, ma è stata ben diversamente occasione di un profondo, storico riassetto e proprio per questo anche oggetto di accesi dibattiti. Magari nell’isola con l’introduzione dei poli museali si raggiungerà pure l’obiettivo di una maggiore efficienza organizzativa. Il personale, prima incardinato in ciascun sito, è assegnato ora al polo, secondo gestioni che l’ex assessore Antonino Purpura definiva «fungibili», ossia non strettamente legate alle specificità culturali dei siti medesimi. In altre parole, personale prima inquadrato in un museo adesso può essere trasferito, a seconda delle necessità, ad altro istituto, secondo una mobilità territoriale di 50 km dalla sede di primaria afferenza. Il Salinas, fresco d’inaugurazione (parziale) offre il primo esempio: lo si riuscirà a tenere aperto, per il momento, proprio in forza del personale distaccato da Himera e Solunto.

Ma è sufficiente questo nuovo assetto per avviare un corso che incentivi la valorizzazione dei siti, sull’esempio della separazione Mibact tra quest’ultima e la tutela? Oppure poli privi di autonomia finanziaria accorperanno solo personale e con esso vecchi problemi senza poterli risolvere? E che semplificazione è prevedere per ogni parco, sebbene non istituito, un’unità operativa distinta in ogni Polo?

Incognite a cui si contrappongono, al contrario, dati incoraggianti e significativi proprio sul fronte «non spinto» dei siti archeologici, che raccolgono «oltre l’80% per cento del flusso complessivo di visitatori annualmente registrato dai 122 siti regionali», come ci diceva ancora Purpura, che ammetteva pure che, in ragione di queste cifre, «un intervento in materia avrebbe l’effetto di allineare quasi tutto il sistema dell’offerta culturale regionale al modello di autonomia realizzato a scala nazionale dal Ministro Franceschini». Eppure anche l’aumento, nei primi tre mesi di quest’anno, del 36 per cento delle visite proprio alla Valle dei Templi, che conferma un trend in costante crescita, avrebbe dovuto segnalare che la strada virtuosa sia proprio quella dell’esperienza autonomistica.

A monte del velleitarismo riformistico manca una riflessione teorica organica.

Non resta che spiegare così le diverse incongruenze della «riforma». Ci soffermiamo su qualcuna.

Primo. Si crea un sistema ibrido, mettendo insieme i 4 parchi già istituiti secondo la Legge Granata (dove c’è continuità tra tutela e valorizzazione: parco Valle dei Templi, Naxos, Segesta e Selinunte) e i 13 poli museali che comprendono pure i parchi non ancora istituiti (con compiti solo di valorizzazione: polo di Agrigento; di Gela e Caltanissetta col parco di Gela; di Catania col parco di Catania e quello della Valle dell’Aci; polo di Piazza Armerina, Aidone ed Enna con i parchi della Villa del Casale e di Morgantina; polo delle Isole Eolie; polo di Messina; tre poli a Palermo, uno per i siti,  uno per i parchi e uno per il Museo Regionale d’Arte Moderna e Contemporanea, a cui si è «appiccicato» il museo del carretto siciliano di Terrasini; polo di Ragusa; due poli a Siracusa, per i siti e per i parchi di Siracusa, Lentini, Eloro e Villa del Tellaro; polo di Trapani e Marsala col parco di Lilibeo).

Secondo. Manca una visione di sistema: a differenza della riforma ministeriale, quella siciliana non prevede, nemmeno in prospettiva, la creazione di un «sistema museale regionale», tra musei regionali e non regionali, sia pubblici, sia privati.

Terzo. Manca il bilanciamento offerto dal sistema Grandi musei-Poli museali regionali che nello Stato contempera meglio, anche economicamente, le esigenze, perché rende finanziariamente autonome le strutture maggiori, che già introitano parecchio e che potranno autosostentarsi, e permetterà così di destinare le risorse (scarne) statali al resto. Questo tipo di bilanciamento poteva, invece, essere offerto proprio dall’istituzione dei parchi finanziariamente autonomi, secondo il binomio Parchi archeologici-Poli museali.

Quarto. Presenta una riorganizzazione dei siti meno articolata, che prevede l’introduzione solo dei nuovi poli, mentre il Decreto Musei del 23 dicembre 2014 ha previsto il museo-ufficio, il museo dotato di autonomia speciale, il polo museale regionale, il museo-fondazione. Inoltre, con l’assorbimento dei musei storici siciliani, come l’Abatellis e il Salinas di Palermo o l’Orsi di Siracusa, all’interno dei nuovi Poli museali, di fatto, si fermano a Reggio Calabria i Grandi Musei italiani, status non riconosciuto ai suddetti musei isolani.

Quinto. È assente una coerenza interna, per cui ogni situazione è diversa da altra omologa di altre  province. Mentre, ancora, il Decreto Musei assegna le aree e i parchi archeologici ai Poli museali regionali, il criterio di afferenza dei parchi ai poli non è omogeneo, dovendo tener conto che alcuni parchi sono stati istituiti e altri non ancora, per cui ad Agrigento il Parco della Valle dei Templi non rientra nel nuovo polo, mentre a Siracusa confluiscono nel polo sia il museo Orsi che i tre parchi archeologici in corso di istituzione.

Sesto. I poli coincidono ancora col superato assetto territoriale delle ex Province. Per cui, osservava ancora Granata, «si avranno scenari come quello del museo di Gela che rientra nell’omonimo polo museale e la città di Gela, invece, nell’area metropolitana di Catania, o la Villa Romana del Casale nell’omonimo polo, mentre la città di Piazza Armerina con Catania. Questo scenario, che prevede un’aggregazione su base provinciale e non per ambiti geografico-territoriali (che potrebbero anche non coincidere con i confini amministrativi), non tiene più conto quindi del legame identitario tra istituti e luoghi della cultura presenti nel territorio di competenza».

Infine, resta irrisolto il mancato rapporto tra Beni culturali e Turismo che, a differenza dello Stato, fanno ancora capo a due distinti Assessorati. L’assenza di progettualità integrata tra i rispettivi Dipartimenti (ma anche con gli altri che hanno per oggetto i paesaggi e i territori, o col Dipartimento delle Infrastrutture) che  operano come due monadi isolate, continua ad essere un nodo strutturale da sciogliere. Se, per esempio, al Turismo si indicano, sulla base dei flussi di arrivo, come asset strategici dei precisi siti del patrimonio, ci dovrebbe essere convergenza anche da parte dei Beni culturali. Non si può, in altre parole, pensare di attivare protocolli d’intesa interdipartimentali (come indicato nella Relazione Progetto Turismo) con la Villa Romana del Casale di Piazza Armerina, sito Unesco, tra le maggiori risorse economiche quale attrattore turistico, secondo sito più visitato in Sicilia nel 2015 con 313mila presenze (cfr. la classifica mondiale dei Musei n.363, apr. ’16, p. 21; nel 2013 era al primo posto, e le difficoltà infrastrutturali erano le stesse di oggi, il che vuol dire che non si è saputo dare continuità all’effetto riapertura post-restauro e alle attività di promozione del complesso di allora), mentre ai Beni culturali lo si derubrica da servizio a unità operativa, vanificando completamente qualsiasi capacità decisionale forte e un’azione rapida e incisiva.

Cosa ne pensano i dirigenti nominati a capo dei nuovi Poli museali?

Per avere idee più chiari si deve attendere che il sistema entri a regime. Intanto, Luigi Biondo, chiamato a dirigere quello di Trapani e Marsala, non sa bene nemmeno quali siano i siti aggregati al polo che fa capo al Museo Agostino Pepoli: «il Museo del Satiro di Mazara, Castello Grifeo a Partanna e l’ex Stabilimento Florio a Favignana?». Il polo include anche il parco archeologico di Lilibeo, diversamente (a proposito delle difformità del sistema da provincia a provincia) da Palermo, dove ci sono due distinti poli, uno per i siti culturali con in testa Palazzo Abatellis, e uno per i parchi e i musei  archeologici, con capofila il Salinas. L’architetto si augura quanto prima «di avere indicazioni sulla distribuzione del personale e sulle varie pratiche amministrative anche per riprendere la spesa nei cantieri di restauro finanziati con i fondi POR e con i fornitori». Tasto dolente per una Regione che con la programmazione 2007-2013 non è riuscita a spendere 51 milioni di euro sui 55 messi a disposizione dall’UE. Punti di debolezza del riassetto? «Per l’ennesima volta si tratta di una riforma calata dall’alto senza nessuna consultazione degli “addetti ai lavori” e pensata da “non addetti ai lavori”. Credo, poi, che gli accorpamenti operati siano stati pensati solo su di una base geografica e non tematica o disciplinare». Si dice, comunque, «tendenzialmente ottimista»: «Forse finalmente potremo raggiungere l'obiettivo di maggiore efficienza organizzativa su scala più ampia; forse potremo avere una autonomia (seppur parziale) che ci consenta di operare in maniera più snella e veloce, magari trattenendo il 30% del ricavato dei biglietti che attualmente viene disperso ai Comuni».

Per Francesca Spatafora, direttore del nuovo Polo di Palermo per i Parchi e i Musei Archeologici, che fa capo, al Salinas, è positivo «il riallacciato legame del museo col territorio». Spera che «non si sia cercato di risolvere il problema della gestione unendo tante debolezze, ma che si voglia dare un impulso a questi Istituti destinandovi le necessarie risorse sia finanziarie che di personale. Certamente una gestione unitaria può essere positiva sotto diversi profili, come l’ottimizzazione delle risorse economiche e umane, o una visione unica sui temi della valorizzazione».

Quali siano, infine, le logiche che governano la «distribuzione del personale», le denuncia inequivocabilmente (su Facebook) Andrea Patané, archeologo della Soprintendenza di Catania, ancora in attesa d’incarico: «Ventinove anni fa, era un venerdì 17, sostenni la seconda prova scritta del concorso che mi avrebbe consentito l'accesso alla carriera di archeologo (il ruolo era quello di dirigente tecnico archeologo) nelle Soprintendenze uniche, interdisciplinari, che erano appena entrate a regime, sostituendo l'apparato statale, nel gennaio di quel 1987. Domani inizierà una settimana che dovrebbe portare alla definizione della ennesima "riforma" dei Servizi e delle Unità operative in seno alla disastrata e disastrosa macchina amministrativa regionale dei Beni culturali e dovrò attendere, a sessant'anni suonati, che qualcuno decida del mio futuro lavorativo (e, in buona parte, anche personale) per i prossimi tre anni. Sembra non sia cambiato nulla da quel lontano 1987; attendere che qualcuno giudichi la tua preparazione, la tua attitudine a ricoprire un ruolo così delicato. Ma allora i membri della Commissione d'esame si chiamavano Santi Luigi Agnello, Nicola Bonacasa, Ernesto De Miro, ed essere giudicati da tali studiosi faceva tremare le vene dei polsi, ma era anche una prova di misura con studiosi di grandissimo spessore; oggi i giochi sono solo di natura politica e tutto viene misurato con lo stile e lo squallore del manuale Cencelli. Da domani potrei essere catapultato in una qualsiasi struttura del Dipartimento dei beni culturali in una qualsiasi provincia siciliana a dispetto di continuità lavorativa, competenze, titoli, anzianità di servizio; potrei anche rimanere a Catania ma solo per altri tre anni, grazie alla perversa pratica dello “spoil system” che impone ai dirigenti regionali, la rotazione degli incarichi dopo due mandati, salvo per alcuni che paiono avere un diritto ereditario alla stessa poltrona. Mi dispiacerebbe lasciare alcuni colleghi che hanno lavorato con me in grande sintonia, mi dispiacerebbe lasciare a metà iniziative e lavori intrapresi, ma questo per l'Amministrazione, per questa Amministrazione non conta nulla. Però una differenza, rispetto a ventinove anni fa la sento: non ho alcun batticuore, nessun patema d'animo per quello che accadrà perché oggi, a differenza di allora, non vale più la pena prendere a cuore le sorti di questa amministrazione (la minuscola è voluta)».

Luigi Biondo

Francesca Spatafora

Palazzo dei Normanni a Palermo, sede dell'Assemblea Regionale Siciliana

Veduta aerea del Tempio C di Selinunte

Silvia Mazza, 31 luglio 2016 | © Riproduzione riservata

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