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La prescrizione della storia

Fabrizio Lemme

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La restituzione dei beni confiscati agli ebrei: deroga o attuazione dei principi?

Francesco Carnelutti, certamente il più grande giurista italiano del Novecento, scrisse nel suo stile limpido un volume denominato Teoria giuridica della circolazione (1933). Qui dimostrava che le esigenze legate alla circolazione della ricchezza, elemento fondamentale dell’economia liberale, comportavano notevoli sacrifici dei proprietari di beni agli stessi sottratti, in forme più o meno illecite: in altri termini, la necessità di garantire la circolazione dei beni comportava delle limitazioni alle possibilità di rivendicazione del proprietario spogliato.

Una delle regole più significative, poste a garanzia della circolazione, è il principio consacrato nell’art. 1153 del Codice Civile, quello che si esprime con la vecchia formula del Codice Napoleonico (art. 2279) «en fait de meubles, la possession vaut titre»: vale a dire, chi acquisti un bene mobile in buona fede dal suo possessore apparente, ne acquisisce la proprietà a titolo originario e non sarà a lui opponibile il vizio nel possesso del suo dante causa. Che cosa significa «in buona fede»? La giurisprudenza è assolutamente pacifica: buona fede è incolpevole convincimento di non ledere l’altrui diritto. Pertanto, non basta la sola ignoranza sulle eventuali carenze in ordine alla legittimazione del possessore apparente, ma occorre anche la dimostrazione che si è fatto quanto era possibile, considerate le circostanze, per verificare la legittimità del possesso in capo al proprio dante causa.

Per i beni culturali, si ritiene dunque fondamentale che l’acquirente abbia potuto verificare se quanto gli è stato proposto sia inserito nell’elenco delle opere da ricercare formato dal Nucleo Tutela Patrimonio Culturale della Benemerita Arma dei Carabinieri. Ove tale indagine abbia dato esito negativo e le circostanze obiettive del contratto non inducano ragionevoli dubbi sulla legittimità del possesso apparente, l’acquisto è perfetto e l’acquirente, divenuto proprietario del bene a titolo originario, non è soggetto alla domanda di rivendica da parte di un eventuale proprietario derubato. Peraltro, a tale regola, nella materia dei beni culturali, sono poste significative eccezioni. La prima: quando il bene sia di provenienza estera, il proprietario derubato (ma la regola trova applicazione anche nel caso di illecita esportazione all’estero, con la legittimazione, in tale ipotesi, dello Stato di provenienza) può esercitare la rivendica anche nei confronti dell’acquirente in buona fede, cui compete solo un indennizzo. E questo non coincide con la nozione di risarcimento del danno, che comprende non solo quel che manca (quantum mihi abest, danno emergente) ma anche quel che si sarebbe potuto guadagnare (quantum lucrari potui, lucro cessante). L’indennizzo corrisponde infatti solo al danno emergente, vale a dire il prezzo pagato e gli interessi legali. Questo è quanto emerge dalla Convenzione Unidroit (art. 4), che risale al 24 giugno 1995. 

La seconda: quando il bene acquistato era in origine di proprietà di una famiglia ebrea ed esso sia stato sottratto secondo i metodi spicciativi che praticavano, dopo il 1933 e fino al 1945, i nazisti, gli eredi della famiglia ebrea sono legittimati a reclamare la proprietà del bene sottratto, al massimo pagando un indennizzo all’acquirente di buona fede (sempre che il bene non fosse inserito nella lista nera dei Carabinieri). Questa eccezione si va ormai progressivamente consolidando ed è ormai prossima a diventare principio di diritto (jus receptum). Infatti, dal 1998, si sono succedute ben tre conferenze internazionali, che hanno introdotto, nell’ambito dei diversi ordinamenti statali degli Stati partecipanti, una tendenza di principio a riconoscere il primato del diritto degli ebrei alla restituzione di quanto fosse stato loro sottratto nel corso della Shoah.

Tenutesi a Washington (1998), a Vilnius (2000) e a Terezin (2009), queste conferenze si sono concluse con documenti estremamente sintetici, consistenti nell’enunciazione di principi che non vincolano gli Stati membri ma dovrebbero servire da orientamento ai giudici chiamati ad applicare le legislazioni di riferimento. Fra tali principi, spicca il punto IV della Conferenza di Washington: «Occorre tener conto delle inevitabili lacune o ambiguità inerenti alla loro (beni culturali) provenienza, considerati il tempo trascorso e le particolari circostanze legate all’Olocausto». Segue il punto VIII: «dovrebbero essere tempestivamente intraprese delle misure per proporre una soluzione giusta ed equa», con la conseguenza che (punto X) «le questioni concernenti il diritto di proprietà dovrebbero essere composte in modo equilibrato». 

Ecco che si torna alla Convenzione Unidroit: il bene deve essere restituito agli ebrei e questi saranno soltanto tenuti, in caso di manifesta buona fede del possessore, a corrispondergli un indennizzo, pari al prezzo pagato maggiorato degli interessi. Cosa ancora più significativa: la famiglia ebrea che è rientrata in possesso di un bene sottratto dai nazisti non soltanto ha diritto di recuperarlo da chi ne sia divenuto proprietario in buona fede, ma potrà anche esportarlo, in deroga alla legislazione nazionale del Paese ove il bene è stato rintracciato.

Non è quindi soltanto l’art. 1153 del Codice Civile a risultare sacrificato, ma anche la normativa di protezione del patrimonio culturale nazionale, che vedrà emigrare dall’Italia magari un capolavoro dell’arte italiana, quando esso sia stato sottratto dai nazisti e la famiglia ebraica risieda all’estero.

È giusto tutto questo? Io mi limito a registrare quel che il diritto sancisce, non quel che il diritto dovrebbe sancire. Se peraltro fossi chiamato a pronunciarmi su questo, nutrirei forti dubbi: sono decorsi oltre settant’anni dalla conclusione della seconda guerra mondiale e come non avrebbe senso, oggi, rivendicare dei beni oggetto delle spoliazioni napoleoniche, nemmeno ha senso rivendicare beni oggetto delle spoliazioni naziste. Esiste una prescrizione più importante di quella prevista dalla legge: la prescrizione della storia, quella che prende atto di situazioni orami remote, solo per affermare l’intangibilità del presente.

Fabrizio Lemme, 02 gennaio 2016 | © Riproduzione riservata

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