La Power100 di ArtReview è come i Mondiali di calcio

Nel governissimo dell’arte convivono squali e vegani: l’attivismo e la trasversalità sono le foglie di fico di un mondo che non cambierà mai

Franco Fanelli |

Mark Rappolt, direttore di «ArtReview», che ogni anno dal 2002 pubblica la classifica dei 100 personaggi più influenti nel mondo dell’arte contemporanea, fa, come si dice, «lo splendido», commentando i risultati del 2022: «Forse si potrebbe dire che sotto tutto ciò c’è un dibattito in corso su che cosa sia l’arte e cosa ci aspettiamo che faccia, dichiara. All’interno di questa discussione, interrompere il flusso regolare del sistema dell’arte può essere potente quanto ingrassare le sue ruote».

Infatti al primo posto c’è il collettivo di artisti Ruangrupa, i curatori della discussa documenta 2022, la «non mostra» che non ha nascosto la volontà e la pretesa di dimostrare che l’arte esiste anche al di fuori del sistema dell’arte così come lo conosciamo. O che, semplicemente, c’è un altro sistema dell’arte, in cui l’attivismo conta più dei soldi.

È quello che fa e che dice l’artista Hito Steyerl, che da documenta15 ha ritirato la sua opera, ma non per le accuse di antisemitismo piovute su alcuni artisti invitati dai Ruangrupa, bensì contro la direttrice che non ha saputo gestirle. Sta di fatto che, nella motivazione del suo quarto posto, si legge che «la sua videoinstallazione “Animal Spirits” (2022) ha debuttato a Seul e ha affrontato i legami tra emozioni, consumi e mercati finanziari, attraverso la "Cheesecoin", l’arte delle caverne e la guerriglia digitale».

La classifica trasuda politica e correttezza politica, radicalismo e, come dice Rappolt, conclamato con sin troppa insistenza per non essere sospetto, un «desiderio di cambiamento» e trasversalità: la filosofa studiosa del pensiero femminista Donna Haraway (16ma), ad esempio, è una delle ispiratrici della Biennale di Venezia con il record di presenze femminili diretta da Cecilia Alemani (al secondo posto) e anche Manifesta 14: non c’è curatore o curatrice o artista di moda che oggi non trovi il modo di citarla, con buona pace di Giorgio Agamben, sparito dalle frequenze del canale «citarsi addosso».

La damnatio memoriae è calata implacabile sugli artisti che uno scrittore una volta di moda come Michel Houellebecq poneva all’inizio di un suo romanzo, gente come Jeff Koons e Damien Hirst; sugli spiritosoni popsurrealdadaisti come Maurizio Cattelan; sui clandestini fasulli come Banksy. Il collettivo trionfa sull’individuo, e tra un po’ torneremo a definire gli artisti «operatori culturali» come si faceva negli anni Settanta.

È l’ora dei Karrabing Film Collective (al 21mo posto), composto da una trentina di autori indigeni australiani; dei Forensic Architecture, un gruppo di artisti, architetti e giornalisti attivo sul versante degli «abusi contro i diritti umani e crimini ambientali». Del cubano San Isidro Movement/27N. Del ghanese gruppo di artisti, curatori e docenti blaxTARLINES (98mo) presente quest’anno a documenta. Le new entry confermano anche la tenuta della Black art (Sonia Boyce, Leone d’oro alla Biennale; Otobong Nkanga, che abbiamo visto al Castello di Rivoli) e l’attenzione a curatori e artisti che operano trasversalmente in zone non solo geografiche ma anche sociali decentrate (Bose Krishnamakari, 89mo, cofondatore della Kokhgi-Muziris Biennale; oppure un gradino sopra, Korakrit Arunanondchai, un altro artista/curatore/organizzatore che ripete il mantra: «La cosa che ho sempre voluto condividere nel mio lavoro è il senso di un luogo condiviso. Non è possibile farlo attraverso una voce individuale o un singolo individuo»).

La classifica di «ArtReview» ha un’inquietante somiglianza con l’atmosfera e certi grotteschi imbarazzi che animano l’attuale Campionato mondiale di calcio. Dove ci esaltiamo per la partecipazione e il valore del Senegal, del Camerun, del Marocco, della Tunisia e del Ghana ma dobbiamo chiudere un occhio sul fatto che tutto ciò si svolge in un Paese non particolarmente sensibile ai diritti umani e alla sostenibilità ambientale; e mentre ci commuoviamo vedendo in tv i giocatori di Stati Uniti e Iran che si abbracciano a fine partita, dobbiamo prendere atto che la Fifa (Fédération Internationale de Football Association) vieta ai capitani delle squadre di indossare la fascia arcobaleno a sostegno della comunità lgbtq, che in Qatar è discriminata (per usare un eufemismo). Ma sappiamo bene che il baraccone multimiliardario e non sempre trasparente, soprattutto con il fisco e i bilanci, del «gioco più bello del mondo», che in Italia si gioca in stadi dove l’antisemitismo, il razzismo, il sessismo e la delinquenza comune riempiono le curve, si regge sul compromesso più spudorato.

Ora, è veramente fantastico che i compilatori della Power100 di «ArtReview» mettano al terzo posto i sindacati che si battono per migliorare il trattamento economico e le condizioni dei lavoratori del mondo dell’arte, però non puoi certo far finta che Gagosian non esista e che sono tremendamente indispensabili quelli che vendono e comprano e magari finanziano o fanno anche le grandi mostre, come la Tate Modern e il MoMA (che strano, due musei finiti nelle parti meno nobili della lista, o a metà classifica, con le figurine di Maria Balshaw e di Glenn Lowry, due che lo scorso anno erano al nono e al settimo posto).

Sebbene non abbiamo ragione di pensare che si tratti di persone che praticano la discriminazione di genere o che sfruttino i loro dipendenti come i neoschiavisti costruttori di stadi, gli intramontabili in classifica sono i perfetti rappresentanti di quel sistema dell’arte che è parte del mondo neocapitalistico cui si oppongono i collettivi o i radical che popolano la stessa classifica. Insieme all’inossidabile Ga-Go, ci sono collezionisti come Miuccia Prada, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e gallerie come Marian Goodman e Perrotin.

E sì, tra le new entry hai un bel mettere una veterana del femminismo come Barbara Kruger, ma poi, oltre a prendere atto che l’espansionismo di mercanti come Hauser & Wirth (31mi nel 2020 e ora 17mi), il potere di Spruth-Magers (da 66mi a 28mi) e la continuità della Pace Gallery garantita dalla direzione di Marc Glimcher (da 60mo a 23mo) sono dati di fatto, ti tocca fare un profondo inchino a due colossi come Art Basel e Frieze, inserendone le nuove governance tra gli esordienti della classifica.

Perché senza le fiere non esisterebbero le documenta e le biennali, e tantomeno quel paradiso non fiscale (giammai) ma terrestre con ambizioni ultraterrene in cui si elabora il bene contro il male, quel multiforme organismo in cui si è tramutato il mondo dell’arte offrendo occupazione e un’etichetta molto, molto chic a laureati in filosofia, antropologia, sociologia, architettura, letteratura, a poeti sconosciuti, scrittori problematici e perfino a pretendenti artisti.

Ecco qui il governissimo dell’arte contemporanea, dove i sindacati e gli attivisti coesistono con i padroni e i capitalisti, i filosofi con i mercanti, i manager con i poeti. Perché vedete, come dice il direttore di «ArtReview», «il cambiamento è lento o non così facile da raggiungere. Per una serie di motivi». Non a caso quelli che nel governissimo si tappano il naso li trovi anche alla buvette, aperta a squali e vegani.

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