Epidemie nell'arte in Italia | FIRENZE

La peste del 1630 nella città del Giglio alimentò poetiche figurative di squisito senso estetico e dotta passione per lo sperimentalismo scientifico

Gaetano Zumbo «La peste a Firenze» (cera policroma, seconda metà del XVII secolo). Museo della Specola, Firenze
Silvio Balloni |  | FIRENZE

Per gli artisti attivi a Firenze alla metà del XVII secolo, la peste che nell’ottobre del 1630 giunse in città rappresentò una fortunata occasione per alimentare uno degli aspetti più caratteristici e distintivi delle poetiche figurative promosse in seno alla corte degli ultimi Medici, ovvero il combinarsi di squisito senso estetico e raffinata e dotta passione per lo sperimentalismo scientifico.

Tale sincretismo trova emblematica raffigurazione allorché Luca Giordano proietta sui cieli copernicani le palle dello stemma mediceo nell’apoteosi affrescata nella galleria di Palazzo Riccardi, dove a ogni membro della casa regnante corrisponde un satellite scoperto da Galileo.

In data 2 novembre 1630 quest’ultimo, impegnato nella revisione finale del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, ricevette da tale suor Maria Celeste «due vasetti di lattovaro preservativo dalla peste» a base di «fichi secchi, noci, ruta e sale, unito il tutto con tanto miele che basti. Se ne piglia la mattina a digiuno quanto una noce, e con bervi dietro un poco di vino greco buono, e dicono ch’è esperimentato per difensivo mirabile».

Ricordiamo, sotto questo profilo, la predilezione che sarà di Cosimo III per il pittore Bartolomeo Bimbi (morto di peste), che per lui dipingerà le «maraviglie» della natura, ovvero le deformità e le anormalità dell’universo vegetale e animale in cicli pittorici dal tenore empiricamente classificatorio, o per il ceroplasta Gaetano Zumbo, dedito a raffigurare con impietosa esattezza gli stati patologici del corpo umano, il quale ci ha lasciato una spaventosa e suggestiva immagine in cera policroma del dilagare del morbo a Firenze, sorta di memento mori, di «infero presepe» in cui monatti e becchini affastellano i cadaveri i cui vari stadi di decomposizione sono indicati con scientifica perizia dall’uso sperimentale del colore, in una sorta di «danse macabre» sul cui sfondo svetta una minacciosa pira di fuoco ardente di infetti miasmi.

L’impatto della peste sulla città fu devastante nonostante il granduca Ferdinando II si sia mosso con rapidità, ristrutturando l’Ufficio di sanità, organizzando tramite la Misericordia una capillare assistenza medica, predisponendo la quarantena e l’isolamento delle comunità colpite e avviando un’indagine statistica sui «cerusici» operanti in territorio granducale al fine di attivare un censimento del personale medico su cui effettivamente poter contare; infine, con un provvedimento che ci ricorda quelli emanati ai nostri giorni e che attendiamo con trepidazione dal nostro Governo, istituendo una vera e prioria Cassa per i lavoratori disoccupati e che nella terribile contingenza degli eventi avevano perso il loro impiego.

Nel novembre 1629 il granduca aveva anche subito proibito «l’entrare a’ confini a tutti gli ebrei, vagabondi e zingari» (evidentemente ritenuti particolare fomite di contagio) e le strade di accesso a Firenze erano guardate a vista dal personale militare «mettendosi ogni mezzo miglio una trabacca, con cinque o sei di loro, uno dei quali faceva di continuo la sentinella e se veniva gente sparava un archibuso, al quale cenno accorrevano gli altri dei vicini posti; eranvi cavalli che giorno e notte scorrevano acciò nulla passasse»: come vediamo, anche in questo caso sembra una fotografia della situazione odierna.

Il lazzaretto della città fu attivato nell’Ospedale di San Bonifazio e scienziati e medici si dettero subito a prescrivere i rimedi al diffondersi del male: «A spegnere il contagio fa di bisogno ricorrere alla Maestà di Dio, alla intercessione della Beatissima Vergine e de’ Santi; di poi osservare con diligenza quanto appiè: inzolfare e profumar le case o stanze ove sono stati morti o malati; separare subito scoperto il male gli infermi da’ sani; bruciar subito e levar via le robe ch’hanno servito per uso al morto o malato, e proibire i commerci»; e per evitare il propagarsi dei focolai fuori dalla «zona rossa» del centro cittadino si prescriveva anche «che niuno potesse mandare i panni a imbiancarsi in contado senza licenza espressa del magistrato acciocché si sfuggisse il pericolo che i panni sucidi di qualche casa infetta non seminassero, nell’essere tramenati, come spesse volte accaduto, la peste in contado». Fu anche emanato un bando «perché in Firenze fossero tenute le strade pulite dall’acque fradicie, e puzzolenti, e altre schifezze», mentre alla Compagnia di San Michele fu affidata la visita delle abitazioni più povere della città, onde controllarne la pulizia «come necessaria per la buona sanità», e distribuire, offrendoli in uso almeno per un anno, materassi e biancheria da letto che andavano a sostituire i consueti «pagliericci sudici e fetenti» dei più umili.

In quel fatidico 1630 lugubri cortei dei Fratelli di Compagnia della Misericordia battevano la città soccorrendo gli appestati, come si vede nel bellissimo dipinto anonimo, già attribuito a Ludovico Cardi e oggi ascritto a Baccio del Bianco, che inquadra con sublime effetto di smarrimento una piazza del Duomo punteggiata da cadaveri e anime in pena raccolte sulle classiche barelle «a guisa di gondola» di tela cerata, mentre i medici appaiono protetti dai cosiddetti «sanrocchini» (da San Rocco curatore degli appestati) i tipici mantelli che costituivano l’abbigliamento canonico dei misericordiosi impegnati nell’arginare un contagio.

Per la Firenze dell’epoca la peste arrivava al culmine di una crisi profondissima, un autentico «ciclo infernale» che aveva preso avvio dalla crisi delle industrie seriche e laniere della città, letteralmente «crollate» nel 1629 (la produzione di panni di lana era passata da 30mila ad appena 5mila unità annue).

I prezzi cerealicoli erano appena entrati in quella che sarà una prolungata fase di depressione, la produzione del vino si era decurtata di ben un terzo e la concorrenza delle industrie fiamminghe si era ormai fatta insuperabile, innescando un’autentica stagnazione economica che anche in questo caso trova un corrispettivo nell’odierno crollo degli indici di Wall Street.

La peste dal canto suo bloccava i commerci e per le manifatture tessili urbane significava accumulare un’ingente quantità di merci invendute, sommate al crollo della domanda e alla conseguente, dilagante disoccupazione.

Crisi economica, fame, denutrizione, per cui «sono già molti anni che la Toscana, mediante la grande sterilità della terra, ha patito questo flagello della carestia, che è stata occasione, a parer di alcuni medici, della peste, alla quale ha disposti i corpi a poco a poco col cattivo nutrimento»: come sempre infatti a dare l’allarme fu un cattivo raccolto e lo scarseggiare del pane, che per le classi povere si trasformò nello scadente pane a base di farina di fave e di saggina, preluse al peggioramento di tutto il cibo fondamentale per i meno abbienti, rendendoli così terribilmente esposti alla falcidia del Male. In quattro mesi ben 9mila vittime: la Città del Giglio perse ben il 12% dei propri abitanti.


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© Riproduzione riservata Gaetano Zumbo «La peste a Firenze» (cera policroma, seconda metà del XVII secolo, particolare). Museo della Specola, Firenze Illustrazione di un monatto da Thomas Bartholin «Historiarum anatomicarum rariorum centuria» 1661 Baccio del Bianco «La peste del 1630 a Firenze» Museo dell'Arciconfraternita della Misericordia, Firenze