La madre di tutte le mostre di fine Novecento
«Civiltà del ’700 a Napoli»: una rivoluzione per la storia dell’arte italiana e un ricordo a cento anni dalla nascita di Raffaello Causa

A Napoli cultura è sinonimo di apertura e Napoli e Parigi non sono state mai così vicine (culturalmente e civilmente) come quando, nel giugno 2023, un tesoretto di quadri del Museo di Capodimonte si è accomodato nella Grande Galerie, il miglio d’oro che dalla Nike di Samotracia porta alla Gioconda e rimane, per forza di cose, uno dei bracci più battuti dell’enorme mammifero del Louvre.
Se, tra l’altro, è stata la prima volta a Parigi del pittore quattrocentesco locale Colantonio, sconosciutissimo oltre gli steccati specialistici; non meno stravolgente appare rincontrare il «Cristo alla colonna» del Caravaggio o il «Sileno» di Ribera (l’unico vero feticcio del museo) appesi in modo diversamente sollecitante. Ma la storia di due città, che converrebbe dettagliare passo dopo passo, parte da più lontano; e tracce del rapporto sono da riconoscere nelle mostre; con relativi cataloghi.
La più bella veduta di Napoli non è napoletana e non è a Napoli. Sta al Louvre e la dipinse nel 1749 Joseph Vernet. Non è tra le prime scelte del museo; ma è un quadro che ha accompagnato le nostre vite da quando figurò in copertina del primo volume della mostra «Civiltà del ’700 a Napoli 1734-1799».
I compilatori del romanzo di Napoli che, con poche eccezioni, frequentano la storia dell’arte con parsimonia, non lo ricordano. Ma dell’esistenza di Napoli fuori di Napoli ci si accorse nel 1979, quando sulla collina di Capodimonte, aprì quell’articolata rassegna settecentesca da Carlo di Borbone alle forche del 1799. La Madre di tutte le mostre di fine secolo.
Catalogo in due volumi. Un oggetto da avere e, perlopiù, rifiutarsi di violare come capita con i cofanetti. Oggetti da tavolo. Coffee table books. Piaccia o meno, un must. Fin dal titolo capiente e centrifugo, generico e antimonografico, «Civiltà del ‘700» bastò a scardinare le modalità di comunicazione dell’evento (in epoca digitale, più importanti dell’evento stesso); oltre che, naturalmente, differenziare le strategie di avvicinamento alle discipline storico - artistiche. A fine decennio (e prima dell’arresto del terremoto del 1980) la rassegna fece sì che nelle esposizioni si alzasse il tiro a beneficio d’una platea più larga; il pubblico medio, che ancora non si definiva generalista.
«Civiltà del ’700 a Napoli» (e non del ’700 napoletano) attrasse sulla collina di Capodimonte storici, antropologi, sociologi, economisti, urbanisti, architetti e fotografi. C’era di che contentare tutti (e scontentare quanti non fossero stati invitati). Da qui, d’altronde, comincia la travagliata rimonta fatta di stagnazioni, false ripartenze e arresti clamorosi, di una città che, ultimamente, ha scoperto i benefici del turismo come la Russia al capolinea del comunismo la civiltà dei consumi. E non sa bene come regolarsi. E prima della mostra?
Napoli è un indirizzo esotico per storici d’arte di ampie vedute (non solo geografiche); tutti gli altri vengono e scappano da alberghi mediamente cari sul lungomare, Capri, Solfatara e Museo Archeologico Nazionale (le location del «Viaggio in Italia» di Rossellini 1953, Ingrid Bergman e George Sanders al meglio); e, per chi ci viveva, un posto faticoso e sgarbato. Il centro storico è una casella vuota.
Pare incredibile, considerando le file di oggi, ma la Cappella Sansevero è un indirizzo quasi sconosciuto e nessuno ci va (tranne una giovane Marina Picone cui si deve, nel 1959, la prima e tuttora insuperata guida, che ricevette il plauso di Longhi stesso). L’aula del Pio Monte di Misericordia non passa di bocca in bocca come approdo inevitabile per la presenza del Caravaggio a capo altare. Ma il Caravaggio anni Settanta non è mania e brand; è pretta roba da conoscitori, collezionisti pittori e restauratori (a Capodimonte verrà ricoverato solo nel 1972).
Quando Napoli sembrava più lontana della Luna
Fatalmente Napoli non è molto altro per gli studiosi non napoletani. Pare più lontana della luna e, con buona pace di Longhi e i suoi interlocutori, l’Italia della storia dell’arte termina alla Biblioteca Hertziana di Roma. Nel 1887, poco più che ventenne, Adolfo Venturi visse la città come un trauma («era una disperazione studiare Napoli»). Un secolo dopo nei vichi intorno all’università si confondono studenti e popolo; i cinema sono numerosissimi e le librerie, tra Piazza Dante e Mezzocannone, non hanno ancora ceduto il posto ai ritrovi vegani e ai kebabbari.
Ma negli anni Settanta, Napoli è una città non dentro, ma contro cui, vivi. Ti abbaia contro come quella che Stefano Vanzina, in arte Steno (altro piemontese!) riprende in «Piedone lo Sbirro» (1973) con Bud Spencer e il giovane Cannavale (un film cruciale per raccontare la città, insieme a un disco come «I buoni e i cattivi» di Edoardo Bennato, uscito l’anno dopo). Ma anche nelle strade di Piedone, di turisti non se ne vedono.
Gli ultimi napoletani d’acquisto risalivano al Grand Tour. Goethe. Thomas Jones o Pitloo. Ma sono viaggiatori di formazione. Gente che torna diversa da come fosse partita; o, preferibilmente, ci muore. Ma nessuno viola il centro di Napoli per turismo. Solo il giovane Longhi, come un Indiana Jones di Alba, era penetrato nelle chiese alla ricerca di Mattia Preti, Battistello e Traversi. Di nuovo la storia dell’arte è un paradigma indiziario per seguire le fortune di Napoli.
La storia delle città passa per le esposizioni
Un libro sulla mostra del Settecento sarebbe urgente non solo perché la trasferta francese di alcuni capolavori di Capodimonte ha uno dei suoi motorini d’accensione nella copertina napoletana di Vernet. La storia moderna della città e delle sue trasformazioni passa soprattutto attraverso il canale delle esposizioni.
In questo caso, per inciso, non si saprebbe pensare a omaggio migliore per ricordare il centenario della nascita di Raffaello Causa (1923-84), che immaginò «Civiltà del ’700» a coronamento di un percorso di studi di quarant’anni. Resta un punto che è il più importante. Il rinsaldamento e il rinvigorimento dei nessi tra Napoli e Parigi sono merito pressoché esclusivo del direttore uscente di Capodimonte, non a caso francese, il migliore che abbiano avuto il Museo e il Real Bosco da quarant’anni a questa parte.
E a Parigi, dove di musei e parchi se ne intendono, non si capacitano di come mai lo stiamo lasciando andare ora che, dopo otto anni, abbiamo i giardini più sfacciatamente belli e meglio tenuti d’Europa mentre cominciavano a indovinarsi i frutti del nuovo riallestimento, il terzo, del museo, sulla carta già ideato (dal sottoscritto, da Patrizia Piscitello e da Alessandra Rullo). Ma Napoli, dice qualcuno, ha una perenne vocazione al suicidio.