La lunga storia di Baratta alla Biennale

Il racconto di come alla sua guida sia avvenuta la trasformazione e la crescita della più importante istituzione culturale italiana sul fronte del contemporaneo

Paolo Baratta
Enrico Tantucci |

«Il compito primario della Biennale è quello di mantenere ben aperto, nel frastuono dei molteplici mezzi di comunicazione e di persuasione, il varco necessario ad artisti e architetti perché possano conquistare la nostra attenzione e stabilire un dialogo non distratto con chi osserva o ascolta, in un clima di apertura e libertà». È uno degli illuminanti passaggi introduttivi del libro in cui Paolo Baratta racconta non solo la sua lunga storia alla guida della più importante istituzione culturale italiana sul fronte del contemporaneo (ben quattro mandati, dal 1998 al 2001 e poi dal 2008 al 2020) che ha contribuito a rilanciare. Ma propone anche la sua Biennale come un modello per altre istituzioni culturali italiane e per la stessa città di Venezia, alla disperata ricerca di un progetto alternativo a una monocoltura turistica che la sta soffocando.

«Venezia vive di ciò che la fa morire», ha già detto come meglio non si potrebbe il filosofo Giorgio Agamben. La memoria di quegli anni, ma anche la storia rivisitata di quelli che dal suo inizio hanno segnato questa istituzione, è raccolta nelle 480 pagine de Il Giardino e l’Arsenale. Una storia della Biennale (edizioni Marsilio), il volume che Baratta ha scritto. Un libro che non è solo il racconto di come sia avvenuta la trasformazione e la crescita della Biennale, resa possibile grazie alla riforma dell’ente del 1998, avviata proprio da Baratta. Ma anche delle difficoltà di farlo in mezzo al complicato rapporto con la politica italiana.

Nel caso di Baratta, soprattutto riguardo ai rapporti con tre ministri dei Beni Culturali del centrodestra, e alcuni dei quali intenzionati a rimuoverlo: Giuliano Urbani, Sandro Bondi e Giancarlo Galan. Ma il libro è appunto anche la proposta, nel caso di Venezia, di un modello di istituzione culturale riproponibile in altre forme che possa creare un’alternativa anche economica al turismo. La prima parte del libro compendia appunto la storia della Biennale prima di Baratta e della riforma voluta nel 1998 dall’allora ministro dei Beni Culturali Walter Veltroni che le diede forma privatistica pur mantenendola in mani pubbliche, definendola Società di Cultura.

È una storia rivissuta soprattutto sotto il profilo amministrativo, fino alla riforma del 1973, con un Consiglio direttivo assembleare, aperto anche ai sindacati e alle categorie, che portava a meccanismi di funzionamento impossibili come quelli descritti nell’Annuario dell’ente del 1974 dove si prevedeva che «il Consiglio direttivo creasse gruppi di lavoro, i quali avrebbero attivato convegni internazionali per identificare i temi delle Biennali, temi che sarebbero poi stati affidati a gruppi di lavoro interdisciplinari, per essere recepiti dal consiglio che, scelti i temi, avrebbe nominato una commissione di esperti».

L’approdo di Paolo Baratta alla Biennale fu dovuto all’incontro casuale con il ministro Veltroni a Venezia, all’inaugurazione di una mostra di Palazzo Grassi, nella primavera del 1998. Pochi giorni dopo, la telefonata del ministro per proporgli la presidenza, che dopo qualche riflessione, Baratta, fino ad allora «digiuno» di Biennale, accettò, soprattutto per i nuovi spazi di autonomia che la riforma lasciava, con il nuovo assetto di tipo societario.

La riforma prevedeva anche l’ingresso dei privati che in realtà nella Biennale non entrarono mai. Ma quella struttura societaria, come ricorda l’autore nel libro, consentì quelle modifiche gestionali che hanno permesso negli anni alla Biennale di aumentare enormemente il numero dei visitatori e di fare quindi di essi, assieme agli sponsor, i «privati» di cui ha bisogno per il suo sostegno economico. Quella Biennale stava per essere «sfrattata» dalla sede di Ca’ Giustinian, per i lavori di restauro. Da quella di Ca’ Corner della Regina che ospitava l’Asac, l’Archivio storico delle arti contemporanee perché ormai fatiscente, mentre anche il Padiglione Italia ai Giardini era di fatto inagibile.

Rispetto ai rapporti con il Comune «sembrava regnare reciproca diffidenza». Con l’idea dell’amministrazione di vendere Ca’ Giustinian e Ca’ Corner una volta restaurati. Per questo il primo compito di Baratta fu appunto la ricerca di nuovi spazi e la folgorazione fu l’Arsenale, visitato grazie alla cortesia di un colonnello militare in pensione. Spazi splendidi, specie nella parte sud, ma pieni di rifiuti e abbandonati. Baratta capisce che alla Marina quegli spazi non servono e scatta allora una straordinaria operazione di recupero dove l’ingegnere, l’economista e l’ex ministro che convivono in lui si alleano per raggiungere l’obiettivo. Grazie anche ai buoni uffici del presidente del Magistrato alle Acque Felice Setaro ottiene che nel nuovo Comitatone per Venezia siano stanziati fondi anche a favore della Biennale da impiegare anche per il recupero dell’Arsenale grazie alla successiva concessione pluriennale, consentendo poi nel tempo l’allargamento attuale, dalle Corderie fino al Giardino delle Vergini.

Ma il libro parla naturalmente anche delle Mostre della Biennale – soprattutto Arti Visive, Cinema e Architettura – e di come la prima in particolare viene rilanciata sotto le mani di uno «sciamano» dell’arte come il curatore e critico svizzero Harald Szeemann. Un punto di riferimento per Baratta. «Per Venezia c’è sempre un pubblico avvertito e interessato, gli scrisse Szeemann nella sua proposta, ma partono sempre delusi e le critiche si fanno sempre più dure. Si deve rendere la Biennale più attraente». Lo fece con la creazione non più di mostre antologiche, ma di una sola esposizione a carattere universale, alla quale i padiglioni nazionali avrebbero fatto da contorno. Una formula vincente, che prosegue ancora oggi.

Il libro svela anche vicende inedite, come, nel 2008, la volontà annunciata in Consiglio direttivo dell’allora sindaco (e vicepresidente della Biennale) Massimo Cacciari di vendere la sede di Ca’ Giustinian al gruppo Benetton per consentire così il raddoppio dell’Hotel Monaco spostando la Biennale al Fondaco dei Tedeschi che lo stesso gruppo di Ponzano aveva appena acquistato dalle Poste, con una permuta con un saldo positivo per il Comune, in difficoltà di bilancio. Una manovra sventata in Consiglio.

E racconta del tentativo, fallito, di Urbani su spinta del sottosegretario Vittorio Sgarbi, nei confronti di Baratta di far rimuovere Alberto Barbera dalla direzione della Mostra del Cinema, che portò alla mancata riconferma del presidente, nel 2001. O della volontà di Galan di non riconfermarlo nel 2011 per fare posto all’amico imprenditore Giulio Malgara. Che poi non andò a buon fine, anche per un’autentica sollevazione allargata al mondo della cultura internazionale. Particolarmente interessanti sono le considerazioni finali sull’impatto della Biennale sulla città e sul suo proporsi anche come modello per innescare processi virtuosi rispetto all’impero della monocultura turistica e allo spopolamento.

Baratta giudica ad esempio un grave errore che Ca’ Foscari e Iuav abbiano aperto sedi a Mestre contribuendo al processo di esodo. Ricorda che la Legge Speciale tutela anche la salvaguardia della vitalità socioeconomica di Venezia. Suggerisce di mantenere e dilatare le attività terziarie non legate al turismo, mentre ragionare in termini metropolitani avvantaggia solo chi è al di là del Ponte della Libertà perché le logiche sono diverse.

«La pandemia in corso, conclude Baratta, ha mostrato Venezia vuota, la caduta del turismo genera effetti clamorosi. Far ripartire l’economia, e quindi anche il turismo, è un obiettivo primario. C’è da chiedersi se non sia questa l’occasione per impostare un futuro meglio governato e meno preda delle spontanee ondate di turisti che prima o poi torneranno, in un mondo che avrà ancora più bisogno di riconquistare al proprio piacere gli incantevoli spazi che furono lasciati deserti nel corso della forzata immobilità. Con quanto fatto dalla Biennale in questi anni abbiamo dimostrato anche che a Venezia molto si può fare. Se ne tenga conto e lo si usi come incoraggiamento».

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