Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image
Image

La fotografia che provoca

Chiara Coronelli

Leggi i suoi articoli

Il Giappone anti-fotogiornalismo

«Oggi, mentre le parole hanno perso il loro fondamento essenziale, la loro realtà, l’occhio di un fotografo può catturare frammenti di realtà che non possono essere espressi attraverso il linguaggio quale è»

È con questo manifesto che nel novembre del 1968 scende in campo «Provoke», rivista quadrimestrale che vivrà solo per tre numeri, fondata in Giappone dallo scrittore Takahiko Okada, dal critico Kohi Taki, e dai fotografi Takuma Nakahira e Yutaka Takanashi, ai quali dalla seconda uscita si unirà anche Daidō Moriyama.

Fin dal sottotitolo, «Provocative Materials for Thought», la fotografia si dichiara qui come linguaggio autonomo, come sistema espressivo capace di provocare pensieri.

Nata in un preciso contesto storico, la sua pur breve avventura segna a fondo la fotografia giapponese, e non solo, collocandosi in un terreno alimentato sia dai movimenti che negli anni Sessanta si oppongono all’ingerenza statunitense e al consumismo, sia dalla trasformazione sociale di un Paese che cerca di darsi una nuova identità, sia dalla necessità di nuove norme estetiche ricercate anche attraverso l’arte performativa e la fotografia di protesta.

A questo crocevia si colloca «Provoke: Between Protest and Performance. Photography in Japan 1960-1975», che presenta in una sorta di installazione al Fotomuseum fino al 28 agosto più di duecento opere oltre che di Daidō Moriyama, Takuma Nakahira e Yutaka Takanashi, anche di Nobuyoshi Araki, Eikō Hosoe, Kazuo Kitai, Shōmei Tōmatsu e molti altri.

Il gruppo lavora a una ridefinizione delle convenzioni fotografiche, opponendo agli stereotopi della comunicazione una visione antinarrativa e antiestetica, con la quale disattendere l’obiettività del fotogiornalismo e la pulizia delle immagini, il loro valore descrittivo e documentario.

Dal momento che la realtà è diventata incomprensibile, l’obiettivo sembra il solo strumento ancora capace di raccontarla perché restituendone parzialità e disordine ne ritrova il senso. Per «catturare la forma di un mondo che si sottraeva loro» questi fotografi ricorrono alla soggettività spinta, al bianco e nero sporco di una stampa «satura fino al punto di sembrare umida», allo «sgranato, mosso, e fuori fuoco».

Chiara Coronelli, 12 giugno 2016 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Abbandonato il progetto londinese causa Brexit e pandemia, l'istituzione «ripiega» annunciando l’apertura di tre nuovi poli preparandosi a diventare uno dei più grandi musei privati al mondo

Unseen Photo Fair torna al Cultuurpark Westergasfabriek di Amsterdam con il nuovo direttore Roderick van der Lee

La monografica di Walter Niedermayr a Camera tocca i temi fondanti della sua opera, dove spazio e presenza umana si confrontano attraverso uno spettro che va dai ben noti paesaggi alpini all’architettura, dagli interni alle distese urbane

Paul Graham all'Icp cura una collettiva «sulla fotografia e sull’atto di vedere il mondo» nel XXI secolo

La fotografia che provoca | Chiara Coronelli

La fotografia che provoca | Chiara Coronelli