La collezione Farnesina | Paesaggi
Il tema del paesaggio, reale o immaginario, nelle opere di Rä di Martino, Pietro Donzelli, Franco Fontana, Luigi Ghirri, Guido Scarabottolo, Ettore Spalletti

Ogni paesaggio è prima di tutto un paesaggio umano. Non esiste dipinto, fotografia o disegno che illustri un paesaggio senza che abbia avuto luogo una percezione dello stesso, un’esperienza sensibile e soggettiva, a volte anche immaginaria. Di fronte alle varie declinazioni che ne testimoniano la natura mutevole e poliforme, risulta difficile definire il paesaggio semplicemente un «genere», una «categoria estetica». Esso è in realtà molto di più e gli artisti questo lo sanno bene: sovente consegnano a esso la traduzione visiva della propria ricerca, restituendo un’idea atipica di veduta paesaggistica, fortemente personale e autobiografica.
Questa impronta umana (potremmo dire, introspettiva) si ritrova in ognuna delle sei opere selezionate dalla Collezione Farnesina qui presentate. Come in una sorta di viaggio onirico verso un luogo imprecisato della mente, le sei opere danno vita a un percorso visivo dove si intrecciano atmosfere evocative, scene prospettiche inusuali e cromie ricche di significato.
Se dovessimo individuare una prima tappa di questo viaggio immaginario, l’opera del grafico e illustratore Guido Scarabottolo (Sesto San Giovanni, 1947) sarebbe un giusto inizio. Il tratto sinuoso e stilizzato dei suoi disegni, provenienti dalla serie «Io sono Ulisse» (2018), si presenta come una raffigurazione immaginifica dell’ambiente marino, tema alla base del progetto «Sanlorenzo Voyage Adventure» (di cui l’opera fa parte), un cofanetto costituito da cinque piccoli volumi, commissionati dai canteri navali Sanlorenzo allo studio milanese GraphX. Nel disegno qui presentato, realizzato con carboncino, sanguigna e inchiostri su carta, l’orizzonte piatto della superficie marina è interrotto bruscamente dalle onde del mare in tempesta.
Il gesto imprevedibile di Scarabottolo sembra nascondere la volontà dell’autore di lasciarsi stupire, la possibilità di cambiare idea all’improvviso, il desiderio di un’incertezza che può generare nuove visioni. Ai nostri occhi si offre un paesaggio minimale, dal segno grafico forte e caratterizzante, ma allo stesso tempo accomodante. Dentro il mondo disegnato dalla sua mano è facile trovarsi a proprio agio, cullati da una storia in divenire che siamo liberi di leggere e interpretare. Non è un caso che nel corso della sua lunga carriera Scarabottolo abbia illustrato moltissimi libri per bambini: essere semplici non è per niente semplice.
Il fascino per una traduzione grafica del paesaggio si rintraccia anche, inaspettatamente, nell’opera di Pietro Donzelli (Monte Carlo, 1915-Milano, 1998), uno dei nomi più significativi della fotografia italiana dell’immediato dopoguerra. A lui si devono alcuni capolavori della tradizione fotografica italiana neo-realista: famosissimi i suoi reportage sull’esondazione del Po e sulle terre alluvionate del Polesine, così come quelli dedicati ai minatori di carbone del Sulcis. Il paesaggio di Donzelli è un paesaggio rurale e reale, risultato di una documentazione il più possibile oggettiva, ma non per questo immune dal filtro della soggettività dell’autore.
Donzelli registra con rigore formale le condizioni lavorative dell’Italia del dopoguerra, servendosi delle possibilità insite nell’utilizzo del bianco e nero con estrema lucidità. Lo scatto «Valle Pega, venditrice ambulante» (1954), parte della serie «Terra senza ombra», si distingue per un’armonia geometrica rara nella fotografia di reportage. Sullo sfondo di un paesaggio dalle luci nette e dalle linee prospettiche decise, una figura nell’angolo destro dell’immagine si appresta a uscire dall’inquadratura, portando in scena quel dato temporale che caratterizza la fotografia come mezzo espressivo.
Unica altra figura umana a comparire tra le opere selezionate è la sagoma scomposta dell’opera «Allunati #19» di Rä di Martino (Roma, 1975), artista multidisciplinare formatasi tra Londra e New York, i cui progetti spesso indagano le mitologie collettive reiterate dall’industria dei mass media. In questa serie recente Rä di Martino indaga lo scenario lunare per rielaborarlo in chiave intima, quasi domestica, lontana dai riflettori.
Secondo la visione dell’artista, nell’immaginario collettivo la conquista della Luna del luglio 1969 simboleggia la supremazia della ragione umana sul caos; nel tentativo di smantellare questo racconto predominante, il paesaggio diventa il contesto in cui inquadrare questa «conquista epica», posizionandola sotto la luce tenue di un futuro alternativo costruito a partire da una nuova interpretazione del passato. I protagonisti di questa storia sono eroi senza armatura e senza volto, ricoperti da foglie d’oro, colti mentre si muovono, con assoluta quiete e normalità, sul territorio lunare fotografato in bianco e nero.
Il tema della Luna ci traghetta in maniera naturale verso la prossima tappa del nostro percorso, trasportandoci nel mondo etereo e nebuloso di Luigi Ghirri (Scandiano, 5 gennaio 1943-Reggio Emilia, 14 febbraio 1992). La prima fotografia della terra vista dallo spazio, scattata durante quel fatidico primo viaggio verso la superficie lunare, fu per il giovane Ghirri un’immagine profetica che lo segnò profondamente, tanto da spingerlo a iniziare la sua ricerca nel mondo dei segni e dell’immagine.
Ghirri fotografa soprattutto il paesaggio a lui familiare, l’Emilia, nei suoi aspetti più quotidiani, talmente scontati da risultare a volte invisibili. Le sue fotografie, dai toni morbidi e tenui, gli permettono di esaltare il ruolo della memoria in relazione all’immagine fotografica, avamposto privilegiato per l’esplorazione libera della mente. Ma la memoria non è il suo unico oggetto di interesse. In lui è forte la consapevolezza di ciò che circoscrive le potenzialità dello sguardo: una stratificazione di esperienze, preconcetti e categorie sovraindividuali che ci portiamo dietro tutta la vita.
Ecco dunque che la strada sterrata raffigurata nello scatto «Verso Lagosanto» (1989) appare come una visione lirica, un sogno interrotto a metà, che nella sua evanescenza sembra indicare perentoriamente una direzione oltre l’orizzonte, l’unica possibile per afferrare il significato dell’esistenza. Lungo il corso della sua ricerca artistica, totale sarà la devozione di Ghirri verso la comprensione della soggettività dello sguardo e la percezione come filtro primario nella costruzione dell’immaginario, pubblico e collettivo.
Se Ghirri è stato colui che più di altri ha sondato le potenzialità espressive della fotografia di paesaggio, un altro noto fotografo si è dimostrato in grado di spingere la propria ricerca oltre i confini tradizionali; sin dagli anni Sessanta Franco Fontana (Modena, 1933) ha esplorato la raffigurazione del paesaggio attraverso un’attenzione precisa verso gli aspetti formali e percettivi dell’opera d’arte, dando vita a immagini uniche nel loro genere. L’indagine visiva di Fontana si concentra sulle possibili declinazioni figurative di elementi solitamente strumentali alla fotografia: la luce e il colore, nei suoi scatti essi assumono il ruolo di protagonisti, diventando i principali soggetti delle fotografie.
Attraverso rigide geometrie cromatiche e linee minimali, l’artista modenese mette a punto un’interpretazione dell’ambiente naturale (e non solo) con un approccio estetico che ricorda la pittura astratta. Le sue sono composizioni poetiche, dove le forme del paesaggio tendono a diluirsi senza però tradire la loro natura fotografica. Ciò è evidente in «Quattro stagioni» (1974), serie che si compone di quattro paesaggi rurali catturati in periodi dell’anno differenti. Quest’opera rappresenta una sintesi perfetta della visione di Fontana: il paesaggio si pone come un’esperienza altamente percettiva, ma sviluppata a partire dall’aderenza con la realtà. L’utilizzo creativo del colore, insieme all’esaltazione di linee geometriche ed essenziali, rende la sua fotografia un’esplorazione inedita del tema paesaggistico.
Nell’ultima tappa del nostro percorso vi è ad accoglierci un’opera pittorica dai toni crepuscolari: «Montagna, Appennino» (1984) di Ettore Spalletti (Cappelle sul Tavo, 1940-Spoltore, 2019). In maniera affine a Fontana l’artista abruzzese fa del colore l’oggetto principale della propria ricerca, a tal punto che per lui la pittura «è come entrare in un colore e dopo è il colore che ti porta nei luoghi». Profondamente legato alla sua terra d’origine, le cromie che utilizza nelle sue opere spesso ricordano le tonalità del litorale adriatico: l’azzurro prima di tutti, colore atmosferico, impalpabile, profondo, che cambia al cambiare della luce e delle radiazioni.
Il colore, per Spalletti, è una condizione ambientale e in quanto tale si inserisce perfettamente nella sua riflessione sulla relazione tra opera e spazio e sul confine tra pittura e scultura. Il suo paesaggio è un impasto di colore, un insieme di forme e variazioni cromatiche, di percezioni che si sommano, si sovrappongono e si mescolano. Più di ogni altro artista presentato in questa occasione, Spalletti offre ai nostri occhi «un’idea» di paesaggio, un accenno possibile che sta a noi cogliere e decifrare, secondo la nostra sensibilità e il portato di esperienze che abbiamo. L’opera di Spalletti è altamente autobiografica, eppure la sua visione personale ci fornisce lo spazio per concederci una contemplazione dolce e silenziosa, la fine perfetta di questo nostro viaggio.
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