La collezione di Gian Enzo Sperone | 3. IL CONNAISSEUR

Il racconto della straordinaria carriera di un protagonista centrale nell'arte internazionale dalla seconda metà del Novecento ad oggi

Un ambiente interno dell’abitazione di Gian Enzo Sperone in Engadina nella quale è allestita una parte della sua collezione d’arte
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Gian Enzo Sperone, ottantenne, torinese, è il gallerista d’arte contemporanea che da oltre cinquant’anni occupa una posizione di vertice nella scala internazionale del settore, a partire dalla galleria tuttora condivisa a New York con Angela Westwater, ma forse ancor più nelle sue personali gallerie che si sono alternate tra Torino e Roma e ora in Svizzera, a Sent nell’Engadina.

TERZA PARTE

Nella capacità di percepire prima e di percepire subito giocano vari fattori: uno sicuramente è la cultura e la conoscenza, ma altrettanto utile è la capacità intuitiva e, forse, una predisposizione.
C’è qualcosa di genetico in chi arriva primo nelle varie forme espressive, così come nello sport. Io ho cercato sempre di essere rapido nel ripido, come modo di mettersi alla prova e non sprecare tempo a elucubrare. Io sono nato per fare questa vita, questa collezione e non so cos’altro avrei potuto fare.

E l’intelligenza?

Conosco persone molto intelligenti che non capiscono la qualità dell’arte e quello che dell’arte visiva c’è dato di conoscere. Alla mia mostra dei fumetti di Roy Lichtenstein del 1963 a Torino, Umberto Eco ha fatto battutacce polemiche contraddicendo aspetti della sua ricerca. Quello che conta è quello spiritello poetico che sta dentro di noi e che alcune menti tendenzialmente analitiche si sforzano di zittire.

Lei ha detto che non vuole venderla, ma dopo di Lei quale sarà il futuro della sua collezione?

Oggi non sono in grado di prevedere. Per l’antico questa collezione è stata descritta da Gianni Romano «di gusto internazionale» e per il moderno e il contemporaneo essa è il risultato delle mie scorribande in tutte le aree del ’900. È ovviamente piena di lacune e omissioni (talvolta volute). Spero non vada dispersa. Lo deciderà chi verrà dopo di me. Sono abbastanza fatalista e apprezzo l’idea di Mario Rigoni Stern: «Sette anni bosco, sette anni prato, e poi tutto torna com’era stato».

Allora facciamo un confronto. Con la collezione Panza di Biumo, per esempio, che era esclusivamente di arte moderna americana.

Non c’è confronto: Panza è stato unico e irripetibile; qualche volta si disapprova il suo disinteresse di collezionista per l’arte italiana. Lui pensava che la storia dell’arte nel suo continuo peregrinare si identifica a intermittenza con luoghi specifici. Per lui e i suoi anni era l’America. Dal 1946 in poi in parte è stato vero. Io ho posizioni più sfumate e prendendomi la licenza di scadere nel venale, trovo insopportabile che Fontana, de Chirico e Burri costino un decimo di Jeff Koons.

Già, l’economia del tempo, l’economia delle energie e l’economia delle risorse: un tema sempre più determinante nella vita di tutti.

Io ho comprato di più di quello che ho venduto e questa è la mia vera forza. Lo diceva prima di me e con altre parole Kahnweiler ottant’anni fa, ma il senso è lo stesso.

Che peso dà al denaro? Che ruolo gioca oggi il bisogno economico nel sistema dell’arte e nella creazione dell’opera d’arte?

Ovviamente con mezzi propri scarsi e senza appoggi finanziari significativi si combina poco e altresì vero che senza il mondo della comunicazione, del sistema/musei/critici/specialisti, le sole risorse finanziarie non bastano. Ci vuole capacità di anticipazione che si faccia il mercante oppure il collezionista. Il meglio è sempre avere un amico banchiere, senza mai scordare di combattere la deriva commerciale in atto.

Chissà quanti rimpianti per disattenzioni e distrazioni: opere e persone che ci sfiorano, alle quali non badiamo e che perdiamo per sempre.

Assolutamente sì: rimpiangere non serve a niente ma incita a migliorarsi.

Quale significato secondo Lei ha l’arte nella nostra vita e nella nostra società?

Come le poche altre cose che ci accompagnano dalla culla al nulla, l’amore, i miti e l’aspirazione al sublime.

Però l’arte è un fatto sociale, l’amore è un atto privato, individuale.

Certo che sì: l’arte per esistere ha bisogno di essere fruita e se la cerchia ristretta si allarga tanto meglio, a differenza dell’amore.

Alle inaugurazioni delle mostre di arte contemporanea le persone affluiscono a migliaia. Ma quanto vero interesse c’è in un’adesione così diffusa? Quale reale competenza? Che cosa cercano?

Cercano trofei, la prova che se non si passa la vita a cacciare e possibilmente con una macchina fotografica a documentare, non si ha visibilità. Tutti vorrebbero essere famosi anche per 15 minuti (questa osservazione, per la verità più tagliente di quello che si pensa, l’aveva fatta Andy Warhol). Io come altri vorrei piuttosto un centimetro quadrato tutto mio dalla crosta al centro della terra, in cui perseguire l’obiettivo vero: diventare quello che si è.

Ancora una volta, soldi e vanità.

La vanità è un buon carburante, meglio ancora se sorretta dall’intelligenza e dall’umorismo. Ileana Sonnabend, ad ogni starnuto, amava dire: «Santé, bonheur et surtout argent». Il duca di Montefeltro era sicuramente pieno di sé, ma non scordava che senza soldi non si può costruire un palazzo memorabile, senza il quale oggi non si parlerebbe così tanto di lui.

Pubblicare la sua collezione può venire inteso come un atto di vanità.

È logico, il collezionista desidera condividere con altri il frutto più prelibato delle sue ossessioni.

Ci sono differenze tra ieri e oggi nel rapporto con l’arte?

Si ripetono nel bene e soprattutto nel male, le stesse cose che succedevano nel Cinquecento. Tutte le grandi officine di pittura, anche quella di Raffaello e compagni, dovevano produrre a pieno ritmo ricercando continuamente appoggi e alleanze. Un elemento nuovo del post moderno è la frenesia, talvolta scomposta o sguaiata. Si viene a destituire l’idea di riflessione e compostezza, come si riscontra nel mondo classico.

Per concludere Lei dimostra che oggi si può ancora fare una collezione come la sua senza spendere cifre sovrumane per opere costosissime.

Vorrei che chi guarda questo libro si ponesse almeno una domanda: ma come ha fatto questo signore a mettere insieme e tenere insieme questa collezione? Dove ha trovato il tempo, le risorse? Do a tutti una risposta rassicurante: se si vuole fortemente si può, ma bisogna rinunciare a molte altre cose.

Il suo libro restituisce l’attualità anche nel nostro tempo a quella cosa bizzarra, rara e sospettosa che è il collezionismo, al quale dobbiamo essere grati perché tutti i musei discendono da questa antica contagiosa malattia che è l’istinto naturale di volersi impossessare delle cose.

Per poi fatalmente consegnarle ad altri. A parte quel collezionista giapponese, di cui mi sfugge il nome, che 30 o 40 anni fa si fece seppellire con il suo Van Gogh perché non voleva separarsene. I collezionisti prima o poi vogliono che le loro opere escano dal privato per entrare nell’agone del giudizio storico.

Lei stesso non aveva già deciso di fare una donazione pubblica?

Anni fa avevo individuato la Reggia di Venaria perché bellissima e ancora con enormi spazi vuoti, specie le Paggerie nel sottotetto. Avevo in mente una donazione, su cui anche i miei eredi erano d’accordo, di una settantina di opere antiche e moderne: quelle antiche selezionate dal professor Gianni Romano.

Come mai non c’è stata?

Un grande malinteso con i dirigenti del museo, specialmente il direttore Turetta, ha minato il mio entusiasmo, ma sarebbe troppo lungo e indiscreto entrare nei particolari. Mi dispiace per il presidente Chiamparino, che con Antonella Parigi aveva cercato di farmi ritornare sui miei passi dicendomi: «Comprendiamo la tua delusione, ma ricorda che gli uomini passano e le istituzioni restano».

Non voleva fare una mostra?

Ci sono state vicende altrettanto sfortunate che hanno vanificato anche il progetto di una mostra in un museo torinese. Dopo un lavoro meticoloso della direttrice Enrica Pagella e Cristina Mundici, e con l’apporto intelligente dell’architetto Benedetto Camerana per il piano espositivo, non si sono trovate risorse sufficienti per questa esposizione rivelatasi più impegnativa e costosa del previsto.

Potrebbe aver giocato il fatto che Lei è un mercante di successo e dunque si sperava che finanziasse anche l’allestimento?

È una domanda troppo complicata, per rispondere ci vorrebbe un sociologo o uno psicologo.

Abbiamo smarrito il senso di una cosa straordinaria che dev’essere giudicata etimologicamente: la magnanimità, vedere in grande, la grandezza che non ha spiegazioni.

Temo che i tempi non siano ancora maturi per un rapporto equilibrato tra privati e istituzioni pubbliche. Nonostante esista da anni una legge specifica. In America la legislazione fiscale, più pratica della nostra, da anni ha inventato e rodato un sistema di incentivi che piace ai privati che vogliono donare opere d’arte ai musei.

Non vorrei dire che questo libro possa sembrare quasi una vendetta, ma dovrebbe far capire l’importanza di che cosa abbiamo perso.

«Il faut cultiver notre jardin» (Candide, Voltaire). A questo punto della mia vita, il superfluo ha la stessa importanza dell’essenziale.

Non potrebbe ripensarci?

Mai dire mai.

FINE

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